
Parlare di teatro oggi sembra più che mai superfluo, eppure ascoltando i dati spesso sconfortanti sul futuro economico del paese, non posso evitare di pensare ai possibili scenari. Dicono che le forme di spettacolo dal vivo, in generale quelle che implichino la presenza numerosa di astanti, saranno le ultime a riprendere. Pensando alle necessità sanitarie o alla semplice filiera alimentare è comprensibile e incontestabile, almeno parlando in termini di priorità. Ma superata l’emergenza, se davvero dovranno pagare lo scotto di attività “ricreative” non prioritarie, in che modo torneranno? Come faranno a riprendersi? Qualcuno ha parlato di “pericolosa recessione del consumo di cultura” e della necessità di una capillare campagna di sensibilizzazione di un pubblico disperso e impaurito. Ma chi ascolterà queste istanze? Difficile immaginare, specie per le realtà artistiche meno importanti, una pronta ed efficace azione politica, soprattutto pensando a chi il collezionismo di poltrone lo pratica in parlamento e non certo in teatro. Un silenzio pesante, da cortina di ferro, scende su quei palcoscenici che vedo già polverosi.
Ecco perché penso sia giusto se ne parli, adesso, in mezzo ai morti e agli assalti ai supermercati e non per mancanza di rispetto, ma per necessario bisogno di aspettative. Perché è vero l’umanità è miserevole, meschina, opportunista e ha spesso mostrato un volto abietto in questi tempi così incerti, ma l’umanità è al tempo stesso grande, meravigliosa, creativa, sorprendente, geniale. È un’umanità che trasforma maschere da sub in respiratori, che regala libri, musica, educazione online, è questa l’umanità che deve vincere, che deve portare con fierezza lo stendardo di una testarda e ostinata sopravvivenza, a cui anche il teatro dovrà dare spazi un tempo preclusi a chi il “genio” lo aveva solo nel nome o nel portafogli. Penso ai tanti talentuosi artisti spesso ingiustamente relegati all’aggettivo “minore”, costretti a gavette infinite, senza appoggi, senza spintarelle. Chi si occuperà di loro in questo rinnovato tempo post pandemico? Per molti forse sarà una rinunciabile fetta di mercato artistico, ma che si dica, si gridi, lo si riaffermi con forza che no, non è affatto rinunciabile, ma dovremo essere noi a rivendicarlo, a rivendicare per noi stessi il cambiamento.
Se ci sarà concesso ancora di abbracciarci, condividere un sorriso o un bicchiere di vino, ci dicono, tutto cambierà, apprezzeremo meglio e con più attenzione i dettagli, lo sguardo, i sospiri. Passeggeremo a testa in su sorprendendoci della bellezza del cielo delle nostre città, faremo quella telefonata, lasceremo indietro le cose inutili, ci occuperemo delle cose importanti. Sarà davvero così? Qualcuno tornerà a rinchiudersi nell’ignoranza o nella tristezza, qualcun’altro troverà nuovi modi per sgomitare, ferire, fregare. Ma chi sopravviverà con rinnovato e genuino interesse per la vita, forse, scoprirà qualcosa di prezioso e semplice al tempo stesso, di cui mai più potrà fare a meno. Ecco, nell’enorme palcoscenico del mondo del dopo-coronavirus, mi piace immaginare anche un nuovo teatro, un teatro sopravvissuto e consapevole. Un teatro che impara, riflette, ascolta tutti: il pubblico, gli artisti meno noti, gli esordienti, il personale di sala, donne e uomini che amano questo sacro tempio dell’arte che ha perso in questi anni la sua sacralità, spesso senza perdere tuttavia la sua inaccessibilità, nel linguaggio, nelle forme, nelle proposte.
Ho lavorato per dieci anni in tanti teatri nazionali, arene internazionali, eventi prezzolati, ma raramente ho anche solo intercettato un dialogo vero fra domanda e offerta. Il “teatro” dei grandi numeri lo fanno in pochi, auto-assumendosi la mission dei desideri e bisogni di chi ne fruisce. Belle iniziative domenicali, mattine di letture classiche, training attoriali destinati a distinte signore dai salottini shabby-chic, impettiti professionisti “retired” già pronti ad imbufalirsi per un ritardo o un vicino di poltrona troppo loquace. No non sono solo congetture, è un teatro asfittico, autoreferenziale, auto-celebrativo a cui non interessa parlare ad un pubblico reale, perché è già troppo impegnato a parlare con sé stesso. È un teatro imbellettato, di un belletto antico, stucchevole, soffocante che impregna quinte, boccascena, sipari, ma soprattutto cuori. Questo è il teatro che mi piacerebbe veder cambiare, uscire finalmente a respirare la stessa aria di noialtri, ma soprattutto mi piacerebbe si tornasse ad amarlo, davvero, chi lo fa, chi lo produce, chi ci lavora dentro, chi ne decide dall’alto di scranni lignei e tabelloni luminosi il destino.
Il teatro deve resistere, in qualunque forma gli sia dato di sopravvivere.
Il verbo resistere è composto dalla particella re- che vuol dire “addietro” e sistere dal latino “fermarsi”, per sopravvivere dunque è necessario fermarsi e guardare indietro, al passato che ci ha insegnato il meglio, ma anche a quello che ha prodotto il peggio. Torniamo ad amare questo nuovo teatro, a parlarci, a viverci dentro, non solo abitarci o a passarci attraverso come fugaci viandanti senza che ci lasci addosso nulla più di un paio d’ore di intrattenimento. Il teatro è il nostro specchio, per far sì che tutto cambi, parafrasando il Gattopardo, tutto non potrà e non dovrà essere più lo stesso.
Come ha sottolineato con acume e intelligenza l’autore Angel Luis Lara, uno dei pochissimi che ha preferito speculare con profondità sulle ragioni piuttosto che sugli effetti, è la nostra realtà prima del virus ad essere il vero problema. E allora senza falsi moralismi o volontà edificanti “Non permettiamo che, travolti una volta ancora dal linguaggio della crisi, ci impongano la restaurazione intatta della struttura stessa della catastrofe”. Resistiamo.