Human: la disumanità dell’indifferenza

“L'arte serve a rendere il mondo meno terribile”

Una luce fioca solca l’aria, poi si attenua. Di nuovo torna lentamente a pulsare nel buio generale, poi più niente. Il faro in lontananza che illumina un mare nero di teste in platea è il bell’incipit dello spettacolo Human, al Duse di Bologna, con Lella Costa e Marco Baliani, per la regia dello stesso Baliani.

Ed è ancora l’acqua che separa due terre la protagonista del racconto successivo, la leggenda della storia d’amore fra Leandro ed Ero, separati appunto dal fiume Ellesponto, una potenza oscura e tumultuosa, misteriosa e potente. La stessa acqua che isola i naufraghi, rovescia i barconi e uccide i profughi. Si passa dal poetico mito dell’amore alla quotidianità di una televisione che narra ancora di morte, di disperati, di disumanità. Proprio la stessa disumanità che si vede anche nel titolo HUMAN, ma con la scritta sbarrata, come una negazione.<

Lella Costa e Marco Baliani

Come fanno a stare sopra i barconi così in tanti?”, “ne arrivano troppi”, “quando c’è la televisione non affogano”. Si ricorre spesso a questa contrapposizione fra il dramma della fuga e il quotidiano, come durante la crociera, dove la gente si diverte ma la nave “non può evitare le fosse comuni del mare”, con le voci nella scia delle onde che “dovrebbero estinguersi ma non smettono di gridare”. Oppure nel racconto di una signora veneta, interpretata dalla brava Lella Costa, che si immagina di dover fuggire da una guerra e riflette su cosa si porterebbe con sé, “una pentola a pressione”, “delle robe che fanno casa”. La stessa donna che alla fine ricorderà il suo viaggio per emigrare in America: spesso l’uomo ha la memoria troppo corta.
La narrazione va a rivivere quei sentimenti e quelle emozioni che ci hanno straziato all’inizio degli sbarchi, e che ora ci lasciano indifferenti, come se fossimo stati immunizzati dalla reiterazione della sofferenza. Ripercorrendo le storie dei naufraghi, veniamo colpiti mentre viviamo la nostra vita normale, nelle nostre abitudini, quasi a farci sentire in colpa del nostro status: “abbiamo avuto un gran culo a stare in questa parte del mondo”. E a poco serve il “razzismo affettuoso” della già citata signora veneta, che sbeffeggia i “neri” anche se pensa “negri”, e li cataloga come spacciatori, e “con tutti quelli che abbiamo qui a km0, dobbiamo importare anche quelli stranieri?”. Lo spettacolo carica sempre a testa bassa, colpendo un’umanità che spesso non è più degna di questo nome, cadendo talvolta nell’inevitabile retorica. Ogni volta che finisce una scena, arriva immancabile la frase ad effetto, un po’ prevedibile.
Il mare ha sempre una gran fame”
Testo duro ed emotivamente carico, che evita di approfondire la “questione dei migranti” ma mostra come noi ce ne disinteressiamo nel nostro quotidiano. Lo spettacolo riguarda noi, il pubblico, non loro. Ma basta la compassione per risolvere il problema? E cosa possiamo fare noi se non sentirci in colpa? Ovviamente non vi è risposta a questa domanda, ma il solo fatto che ci poniamo questi quesiti e che “cerchiamo una giustificazione” è il sintomo che lo spettacolo ci ha colpiti come e dove voleva.
Gli attori sono senza dubbio bravi ed efficaci, come di buon livello è l’impianto delle luci e la scenografia. Spicca, come ci aspettavamo, Lella Costa, anche se il suo ruolo non le permette di “scaricare” le energie di cui è capace, sembrando un po’ spenta. Uno spettacolo ben fatto che ci fa riflettere e, in certi tratti, sentire “sbagliati”. Non è mai facile prendere così a schiaffi l’indifferenza delle persone per ottenere poi, da quelle stesse persone, un applauso.