
Tutto, all’inizio, è lasciato al buio, tre microfoni descrivono e sottolineano il vuoto che caratterizza il palcoscenico prima dell’inizio dello spettacolo, poi le luci in sala si abbassano e, con le mezze luci ancora accese – una parte del pubblico attardato negli ultimi saluti e sorrisi – l’intero cast si presenta sul boccascena. Festen. Il gioco della verità, qui al Teatro Bellini di Napoli comincia così, con i nove attori schierati, il giochino che propongono al pubblico ripete, in forma di scherzo, la stessa scelta che uno dei protagonisti, Christian, giovane rampollo della potente famiglia Klingenfeldt sottoporrà ai convitati della festa che è al centro della pièce, un trastullo innocente in apparenza, il dilemma tra due ipotesi – copioni o discorsi, uno verde uno giallo – risolte semplicemente a caso, visto che tutti ignoriamo i contenuti reali delle due ipotesi.
Sembra essere questo, dunque, il gioco della verità del sottotitolo italiano di questo lavoro, tratto da un film di successo degli anni Novanta, una decisione – anche impegnativa – che assume le caratteristiche del passatempo, del jeu d’ambiance innocente e perverso insieme: tra verità e menzogna, tra realtà e sogno non c’è gran differenza, in fondo, preferiamo alla fine l’una o l’altra secondo opinabilissimi e certamente non consapevoli criteri. Il racconto che comincia, comunque, molto somiglia a una favola, anzi lo è, Hansel e Gretel ci viene proposta, all’inizio e in seguito, con una modalità che potrebbe benissimo rientrare nelle caratteristiche delle regole elaborate nel Manifesto Dogma 95: senza musica a parte – qui un motivo musicale viene accennato dagli stessi attori – l’intero tappeto sonoro, rumori, voci, ambientazioni, tutto è suggestivamente prodotto sul momento dagli stessi attori, che maneggiano anche il modellino di una casa posta ai margini di un bosco, la casa della favola, certo, ma pure la villa della famiglia protagonista.
Perché ciò che ci accingiamo a vedere non nasce per il teatro, è, come ho già detto, la trasposizione di un film famoso e anche molto particolare e qui si pone una prima domanda generale: in che misura è possibile tradurre sul palcoscenico quanto nato per il cinema? È un’operazione sempre rischiosa, secondo me, e si contano sulle dita di una sola mano le trasposizioni pienamente riuscite, quelle, per intenderci, in cui stare seduto sulla tua poltroncina in platea non ti fa pentire di non essere, invece, in sala cinematografica a guardare, più sanamente, più beatamente, più giustamente, il bel film da cui quell’ibrido teatrale è stato tratto. Le preoccupazioni aumentano poi in misura esponenziale quando, come in questo caso, il film sorgente, diremmo così, è molto peculiare, espressione di corrente di cultura cinematografica dichiaratamente “d’avanguardia” come Dogma 95: Festen, il film del 1998, fu salutato come una sorta di rivoluzione copernicana della settima arte.
Co-fondatore del movimento Dogma e regista di pluripremiati film di grande successo internazionale, Thomas Vinterberg ci regalò allora, infatti, una storia molto forte e destinata a lasciare il segno. Sono passati 25 anni dall’uscita di quel film, primo esperimento di quel nuovo cinema danese che inseguiva la realtà attraverso un lo-fi sgranato e sgradevole e ricercava il valore testimoniale dell’immagine, l’aderenza al reale: era una rivoluzione che rispondeva, in qualche modo, al disagio di fronte al “cinema narrativo” classico hollywoodiano, e che trovava riscontro, già nel 1954, nel saggio di Truffaut Une certaine tendance du cinéma français – citato nel Manifesto programmatico del collettivo Dogma 95 – poi ripreso e riconsiderato in Italia da Pier Paolo Pasolini con il suo cinema di poesia contrapposto al cosiddetto cinema di prosa.
Festen vinse il premio della giuria al 51° Festival di Cannes e diventò subito un oggetto scomodo: sobbalzava letteralmente, lo spettatore, di fronte a quelle immagini traballanti – fuor di metafora – per l’utilizzo della camera a mano come da decalogo Dogma 95, e la cui regia obbediva a una serie di prescrizioni e soprattutto proibizioni: niente scenografie ricostruite, niente musica a meno che non risuoni sul luogo dove la scena è girata, nessuna illuminazione speciale, filtri o trucchi fotografici, niente salti temporali o geografici. Naturalmente il tono provocatoriamente declamatorio con cui tutti questi “comandamenti” venivano proclamati, in contrasto con l’esibita ascesi dei contenuti, tornando in qualche modo ad un cinema delle origini, lasciava ambiguamente spazio a sguardi sulla realtà che diventano vere e proprie visioni deformanti – proprio in quanto, invece, contraddittoriamente alla ricerca di una assoluta “verità” – che illustrano una inesausta tensione tra realtà e imitazione, autenticità e menzogna.
Così, prova questa volta il gioco intrigante della traduzione, ricordando che tradurre è sempre tradire, il Mulino di Amleto, che parte da un adattamento teatrale di David Eldridge tradotto e riscritto da Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi, quest’ultimo assume anche la regia dell’allestimento: il sottotitolo, assente nella versione cinematografica, indica in qualche modo il taglio che gli Autori scelgono di dare all’adattamento, perché gioco e verità sono le due parole chiave per comprenderne il senso. Il gioco, prima di tutto, perché caratteristica peculiare di questo lavoro teatrale, molto più che di quello cinematografico, è l’inesausto sapore di leggerezza apparente che cerca disperatamente, forzando l’ossimoro, di nascondere un odore persistente e incombente di tragedia.
Si muove, allora, il latente ma inesorabile precipitar delle cose, verso la conclusione serrata, seguendo l’antico impianto drammaturgico del rito greco, la famiglia al centro d’inimmaginati orrori, dolori e disperate verità chiuse dalle claustrofobiche mura di case confortevoli e gelide, impossibile tuttavia non vedere in trasparenza le sorti d’Amleto e della famiglia sua, che da queste parti, in Danimarca, era di casa. Ma non è solo questione di geografia, trovano posto e degna citazione qui situazioni e atmosfere, oltre che di tutta la drammaturgia scandinava, da Ibsen a Strindberg a Bergman, anche di Buñuel – lo stesso spirito allegro, per esempio, che animava l’impossibilità di lasciare la villa da parte della comitiva borghese nella cena de L’angelo sterminatore – o dell’incompiutezza e inadeguatezza cechoviane. Ma, al di là degli indubbi meriti di chi ha riscritto il film, compiendo scelte ancor più radicali, secondo me, e della sapientissima e accorta regia, di cui poi diremo, è sul lavoro eccezionale degli attori che il tutto si tiene, si centra, e trova alla fine senso e compiutezza.
Così il giovane, nevrotico Christian si nutre, grazie a Elio D’Alessandro, di eroici furori e allarmanti pallori, lasciando che sia la sua pelle a raccontarci con efficacia l’orrore, mentre la sorella Helene trova, nell’interpretazione di Barbara Mazzi, l’incompiutezza di una vita all’insegna del voler essere tante cose e nel non ritrovarsi, alla fine, nulla se non la propria dolente solitudine; Raffaele Musella sa restituirci, infine, con disarmante sincerità il ritratto impietoso del fratello Michael, che vive in modo ancora diverso le proprie nevrosi, scaricando con violenta aggressività le sue inadeguatezze sugli altri: sarà la divertente e svampita moglie Mette, interpretata da Carolina Leporatti, profumo d’inconsapevole frivolezza, a farne per prima le spese, ma poi toccherà a Christian, quando questi cadrà in disgrazia, o al padre Helge, nel momento in cui sarà universalmente riconosciuto come capro espiatorio.
È intorno ai tre disastrati fratelli che ruota tutta la pièce, insieme vittime e carnefici, oscuri e silenziosi testimoni dell’abisso cui solo la morte drammatica della sorella Linda riesce a incutere il minimo di coraggio per poter compiere, finalmente, la scelta di gridare, alto, il proprio dolore. Al terzetto dei figli si contrappone la coppia genitoriale, il tronfio e dannato padre Helge, cui presta carne e sangue Danilo Nigrelli, cresciuto a orgoglio e fede in Mammona, che violenta i figli bambini con l’unico scopo di manifestar loro il suo profondo disprezzo – eravate buoni solo per quello… – e la madre Else che trova credibilità nell’accorato distacco che sa infonderle Irene Ivaldi, che ci restituisce il perfetto ritratto della moglie ineccepibile che nasconde, con attoniti silenzi e stereotipati sorrisi, materne manchevolezze e gelide, sterili premure, salvo pentimenti fuori tempo massimo.
Come in Amleto non può ovviamente, poi, mancare uno spettro vendicatore, quello di Linda, servito nell’impermeabilino giallo di Milo – ulteriore suggestione – da Roberta Lanave che significativamente interpreta pure Pia, la dolce camerierina innamorata senza speranza dell’esangue Christian, un doppio ruolo che riguarda pure il multiforme Angelo Tronca, nei panni di Kim, fraterno amico di Christian e cuoco di famiglia e in quelli meno eroici e francamente comici dello smemore e imbarazzante nonno, padre di Helge. Completa la compagnia, infine, Yuri D’Agostino che impersona Helmut, cerimoniere d’ascendenze germaniche che in questa versione ha più ampio spazio che nel film, facendoci intuire d’esser quasi un figlio adottivo dei padroni di casa, molto più compiacente e aderente al ruolo, in tutta evidenza, rispetto ai figli reali. Perché la tragedia, poi, è tutta qui, come si comprende fin dall’inizio, in questo vitale, sostanziale, sguardo che rompe l’ambito strettamente familiare per allargarsi e diventare sociale e politico, nel senso più ampio del termine.
Affiora, la tragedia, a tratti, rompe il tranquillizzante chiacchiericcio insistente e vano con tempestose bufere che frangono i silenzi interdetti: al tragico contemporaneo, in tutta evidenza, non s’addice il segno pensoso e lugubre, ha bisogno di ospitare in sé tutta intera la complessità della contraddittorietà, si fa strada, insinuante, attraverso l’eterno sorrider vacuo, serpeggia, ospite insolita e inopportuna, attraverso le canzoncine che vanamente inseguono un disegno di inquietante normalità. Somiglia tanto, questa ostentata celebrazione del rito gioioso e bacchico, al vaudeville vagheggiato e inseguito da Čechov, lasciando trasparire universi interi di rimozione forzata al di sotto dell’esigenza di regolarità abitudinaria sotto cui tutti celano le proprie indiscusse ragioni, chi per viltà, chi per malinteso senso del dovere, chi per rincrescimento, chi semplicemente, opportunamente, civilmente per quieto vivere.
L’enormità del vissuto si nasconde sotto il tappeto, la lettera della verità si cela in un vasetto di profumo, la stessa rappresentazione che vediamo è, in fondo, la celebrazione della faccia allegra del rito, quello festoso e disinvoltamente sociale, quello luttuoso e privato è déjà vécu, il funerale di Linda è il contraltare tragico – quello sì – del nostro eterno brancolare incerti, non ci viene tuttavia mostrato, solo a tratti raccontato, allusioni, mezze parole, tanto da dover ricorrere a uno spettro, invisibile ai più, che si muove, inquieto, tra le mura della villa, per riconciliarci con la morte. Cala allora, sul boccascena del teatro, come una pesante cortina su cui proiettare i nostri inquieti desideri, un pesante velario, espediente tecnico già abusato in altri allestimenti ma che qui tuttavia assume sul serio tutt’altro sapore, perché mentre il più delle volte la proiezione di ciò che intravediamo dietro quel velo è marcatamente farlocca, gemina e giganteggia il gesto e l’espressione senza offrire, spesso, ulteriori sapori al cibo che ci viene somministrato, questa volta la cinepresa, rigorosamente a mano, traccia un disegno diverso, cercando di leggere la realtà, anche visivamente, anche con la semplice restituzione ottica “impersonale” come può essere quella della macchina da presa, creando un complesso sistema di im-segni di pasoliniana memoria, una semiotica dell’immagine che è, insieme, operazione linguistica, estetica ed etica.
Cerca un’altra traiettoria, quella cinepresa che insegue nel buio la luce che la guida, si situa – ci situa – in un altrove che punta verso mete alternative, completa la visione spesso contraddicendola, insinua salutari dubbi, offre sguardi allucinati che indagano o scorrono vacui, ci pone, sempre e comunque, di fronte alla responsabilità dell’occhio nostro che conserva sempre, intatta, la capacità e l’opportunità di scegliere: la vuoi gialla o verde, la tua preconfezionata verità, preferisci guardare la superficie delle cose o scendere più in profondità, verso l’abisso che si apre e che intravedi a tratti, pauroso e oscuro come il bosco che circonda la villa.
E quando, alla fine, Christian viene trascinato via, perché taccia, e attraversa le nostre strade, in forma di corridoi tra le nostre tranquille poltrone in platea, correndo disperatamente inseguito da Michael verso un altrove che è il bosco oltre i confini della villa che coincidono con i confini del teatro, noi siamo coinvolti nella festa, quel rito riguarda anche noi, il Waldseligkeit che Else canta celebra la beatitudine straussiasa del bosco e, insieme, quella dell’amor coniugale, violata, straziata, insozzata dalla violenza che prende corpo sotto i nostri occhi. Non è un caso, certo, se alla colazione che celebra la rinascita del sole dopo gli orrori della notte siamo invitati anche noi, si accendono le luci in sala, siamo i convitati – si spera non di pietra – a questo banchetto che, nel ricorrente gioco di specchi, è ancora speculare rispetto al rito celebrativo della sera prima, tutto rischia pericolosamente, apparentemente di finire, come si dice dalle parti mie, a tarallucci e vino, prima di precipitare in un gelido e nordico inferno che è l’inverno delle cose: come diceva quella vecchia canzone, tuttavia, al di là dell’applauso liberatorio che in qualche modo rompe la tensione emotiva diventata insopportabile, non possiamo sentirci assolti, siamo lo stesso coinvolti in questa tragedia travestita da commedia, ne siamo parte, ognuno di noi contribuisce, anzi, a scriverne un brano, a percorrerne un tratto, a celebrarne, come in una accorata liturgia, un catartico percorso di redenzione.