Eracle, Opera dei Pupi, intenso profumo di donna

In scena al Teatro Grande di pompei, per la rassegna Pompeii Theatrum Mundi, Eracle di Euripide, per la regia di Emma Dante, fino al 21 luglio

È in una Tebe afflitta da sole e morte, dalle mura bianche del bianco riflettente del fresco marmo delle tombe – coi ritratti dei morti ben allineati a frotte, a organizzare un ricordo che è tuttavia, nel contempo, assicurazione di perfetta amnesia – che Emma Dante ambienta la “sua” visione dell’Eracle di Euripide, qui al Teatro Grande di Pompei, ultima delle rappresentazioni di quest’anno del Pompeii Theatrum Mundi. Lo fa, grazie alla scena disegnata da Carmine Maringola, (ri)creando un humus che certo molto imparenta la Grecia del quinto secolo prima di Cristo con la cristianissima Sicilia d’ogni tempo, l’improvvisa e funesta demenza dell’eroe con la furia e lo smarrimento del senno d’Orlando, le cui gesta sono richiamate nell’ostentata tracotanza delle armi di Eracle e in quelle di Teseo, rodomonti paladini che sfoggiano una mascolinità insistita e fastidiosa, mentre i loro nemici non a caso richiamano l’eterna altra faccia del mediterraneo, l’Islam dei guerrieri agili e veloci.

Lo fa rivelando d’un tratto, come in un sogno deformante e rivelatore, la sotterranea terra di Santa Rosalia, la cui insegna e la cui icona mirabilmente, come in un abbagliante giocar di caleidoscopio, si sovrappone alla prossima martire Mègara e, insieme, ai suoi sfortunati figli, portati in lunga luttuosa processione, al ritmo insistente e suggestivo dei tamburi e alla musica di Serena Ganci, come nei lugubri e splendidi riti barocchi della Passione, in attesa d’una liberazione cui si crede ormai solo per fede. Lo fa evocando, come sovente, la furia e la dolcezza degli elementi primordiali, che a lei soccorrono nel tentativo, riuscito, di farci comprendere appieno – e non sempre è cosa facile – ciò che un poeta greco andava scrivendo per i suoi contemporanei quasi duemilacinquecento anni fa.

Così, è la terra, elemento principe che ci àncora ad una concretezza che ha la pesantezza e insieme l’aerea leggerezza della pietra bianca delle alte mura di Tebe, che forma loculi che sono tombe ma anche geppie, buone per l’acqua delle bestie ma pure per la terra dei morti e l’acqua del lavacro: la terra è colta qui nel suo passaggio, nell’incrocio fatidico – nella più fatale delle città greche – tra la vita e la morte, tra il passato dei vecchi di Tebe e il rinnovamento di un pensiero audace e imprudente, che renda possibile l’acquietarsi – meglio, il salvarsi – della coscienza di fronte all’incomprensibilità del male.

E poi l’acqua, il secondo elemento, che pervade la rappresentazione, che riempie le vasche lucrali, che purifica, che pulisce, che disseta, che accoglie, come il mare: il mare per i tebani – eresia per il mondo greco – è solo un sogno lontano, come in certe terre dell’arrossato e abbrunato interno della Sicilia, inconsulta landa azzurra di là dai monti, denso di sale e mostri, a giustificazione delle nostre più sante angosce.

Tuttavia l’acqua è pure qui, anzi è qui che più diventa preziosa, perché se nell’acqua nasciamo è pure l’acqua ad accoglierci da morti, a purificare le nostre membra dai delitti, nostri e altrui, a darci una pausa salutare dal dolore, a lavare il sangue delle ferite: nell’acqua saranno messi a giacere per un po’ dai vecchi pietosi i corpi della sventurata Mègara e dei suoi figli, uccisi dal proprio marito e padre, dal demente eroe proprio nel momento in cui tutto sembrava risolversi per il meglio.

Il fuoco, poi, è presente nei lumi sacri che i vecchi accendono, la notte, per sentirsi meno soli, per conforto della città dei morti, a illuminar la sotterranea notte, nel ricordo delle grandi imprese che l’eroe seppe compiere, tenendo lontani dal mondo e dalla mente i mostri che qui e lì sempre s’annidano; e, pure, è fuoco terribile quello evocato da Lico nel suo delirio d’onnipotenza, il fuoco appiccato alla catasta con legna del Parnaso e d’Elicona, per bruciar viva la famiglia d’Ercole: proposito non realizzato, ma che, ne siamo sicuri, avrebbe bruciato, insieme agli innocenti, pure quella città dei morti con la stessa facilità con cui Loge bruciò un giorno il Walhalla, chiudendo infine i conti col mondo troppo vecchio e troppo stanco.

E poi l’aria, l’aria che muove le insegne infisse a capo delle tombe – come fossero croci cristiane che ci riportano a un accorato déjà-vu, contribuendo alla estrema familiarità e, ad un tempo, estraneità del contesto – sì che ora sembrano, per effetto della brezza serale, pale di mulini a vento, che lenti lenti muovono l’aria affocata dal sole di questa Tebe che ha in sé tutto il sangue misto del mediterraneo; ed empie, l’aria, pure le lunghe scampanate vesti dei personaggi, dei vecchi che, come nere prefiche, lentamente oscillando per il dolore di muoversi, in lunghe file avanzando come in un satirico quadro fiammingo affidandosi ad una cecità fideistica, inseguendo il rullar dei tamburi che avanzano, improvvisamente si animano d’insolito vigore e cominciano su se stesse a roteare come dervisci in preda a desiderio sacro, cercando, forse, insistentemente, la comunione con l’uomo dio, l’Eracle che tarda a ripresentarsi dopo aver compiuto l’ultima e più stupefacente impresa, scendere e tornare all’Ade.

Così, sai, ne hai la certezza, che quando finalmente Eracle si ripresenterà a casa, dopo tanta assenza, non sarà per concluder felicemente questa vicenda così cruciale, per questo appuntamento con la storia troppi sono i presagi negativi, l’odor di morte, forse, già appesta la città: la forza bruta di Eracle varrà bene ad uccidere l’usurpatore, ma subito dopo, smagato il senno da Lyssa e Iris in forma antropomorfizzata d’alieni insetti – mostri son diventati, dunque, perfino gli dei – rivolge quella stessa invincibile forza, per voler della dea, contro la sua stessa moglie, i suoi stessi figli.

La demenza di Eracle – amartìa che ha lo stesso sapore del peccato originale, colpa oggettiva che trasmuta ineluttabile in colpa soggettiva – ha la stessa natura, in fondo, a pensarci, della furia d’Orlando, la forza, la violenza, comunque usata, soffre in se stessa d’una macchia indelebile e congenita, solo il superamento di essa porta l’umanità un passo più avanti nel suo cammino di civiltà: la deriva della ragione, la nullificazione delle umane miserie approdano alla fine ad un messaggio di modernità inaudita, la morte eroica per suicidio – morte virile per definizione – viene inesplicabilmente negata, rimane un femmineo continuare a vivere consumandosi ogni giorno nel confronto con il dolore e con il rimorso che mai non cessano.

Piange, il più grande eroe della Grecia, ormai caduto per vergogna e debolezza, eroe di niente, sensibile come una donna, perché, infine, donna. Così si giustifica, in modo pieno, la scelta di affidare ogni parte ad una donna, ricreando un mondo che, femmineo nella naturale appartenenza a quel genere, riesce tuttavia ben presto a riguadagnare l’universalità del mondo: al di là dello scoperto gioco teatrale, che riproduce, invertendolo, il dato storico di un teatro riservato ad un unico genere, questa parobola sul potere maschile, improvvisamente scopertosi fragile e incomprensibile, si risolve in un supplemento di umanità che solo il femminino può, per intuizione, indicare e rendere credibile.

Così ad una stupefacente ed applauditissima Serena Barone – è l’umanissimo Anfitrione, padre putativo d’Eracle – dalle mille voci, da quella arrochita d’anni e potere a quella dolce e melliflua dell’amor familiare, si contrappone l’Eracle di Mariagiulia Colace, quasi robotico nei movimenti e nella postura, volutamente affettato e innaturale nelle movenze che condivide con l’altro eroe, Teseo, Carlotta Viscovo, a simulare una rozza maschilità che, di per sé, escluderebbe qualsivoglia pensiero o tenerezza. E poi l’unica madre – l’unico personaggio femminile nell’abbondanza di interpreti femminili – Mègara dal mortal travaglio, Naike Anna Silipo, il Messaggero di Katia Mirabella, cui spesso è affidato il compito di riferire ciò che i nostri occhi non vedono, e infine il potentissimo ed efficacissimo Coro dei Vecchi di Tebe, tra immaginari fiamminghi ed evocazioni da palermitana cripta dei Cappuccini, affidato agli allievi dell’ADDA, che conclude la messa in scena con un’ultima trasmutazione prodigiosa, trasformando ogni vecchio in aiuola fiorita, come in una antica fiaba, di quelle adatte a scaldare i cuori nelle notti lunghe lunghe.

 

PANORAMICA RECENSIONE
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eracle-opera-dei-pupi-intenso-profumo-di-donnaEracle <br>di Euripide <br>traduzione Giorgio Ieranò <br>regia Emma Dante <br>scene Carmine Maringola <br>costumi Vanessa Sannino <br>musiche di scena Serena Ganci <br>coreografie Manuela Lo Sicco <br>disegno luci Cristian Zucaro <br> <br>interpreti (in ordine di apparizione) Serena Barone, Naike Anna Silipo, Patricia Zanco, Mariagiulia Colace, Francesca Laviosa, Arianna Pozzoli, Katia Mirabella, Carlotta Viscovo, Sena Lippi, Isabella Sciortino, Samuel Salamone, Sabrina Vicari, Mariella Celia, Silvia Giuffrè, Serena Ganci, Marta Cannuscio <br> <br>Accademia d’arte del Dramma Antico sezione Scuola di Teatro “Giusto Monaco” <br> <br>coro Alessandro Accardi, Mauro Cappello, William Caruso, Antonio Cicero Santalena, Alessandro Di Feliciantonio, Giacomo Lisoni, Andrea Maiorca, Roberto Mulia, Salvatore Pappalardo, Stefano Pavone, Riccardo Rizzo <br> <br>produzione, INDA / Istituto Nazionale del Dramma Antico – Fondazione Onlus <br>lingua, italiano <br>durata, 1 ora e 30 minuti <br>Pompeii Theatrum Mundi <br>in scena dal 19 al 21 luglio 2018 <br>Teatro Grande di pompei, 19 luglio 2018