Emone, non al denaro non all’amore né al cielo

Al Teatro San Ferdinando di Napoli in scena Emone, di Antonio Piccolo, per la regia di Raffaele Di Florio

Quando il sipario si alza (veramente si alza solo a metà, come rivelasse una estrema, strenua riluttanza, o dovesse vincere una pesante inerzia, oppure chissà qual incomprensibile timore), quando il sipario si alza a metà, non percepisci subito le coordinate del mondo in cui sei capitato: sul fondo ovattati tramezzi d’un pallido grigio offrono opaco e traslucido limite ad una luce diafana che attraversa il palcoscenico; in primo piano, sulla destra, un mucchio di sabbia bianca e leggera, sulla sinistra, un ragazzo seduto a terra, con davanti una cassetta, e con un buffo paio di occhiali luminosi comincia a parlare… è una lingua, la sua, che ti riporta alle parlate del nostro Sud, colorata tuttavia della vernice arcaica che evita di troncar le parole, ma ben presto t’accorgi che, nonostante l’apparenza, invece è nuova, quella lingua, costruita abilmente ex novo, con un effetto che, straniante all’inizio, ben presto diventa piacevole e naturale, pur mantenendo una sorta di ritmo poetico e musicale, come dev’essere una lingua vera, segno evidente che l’artificio è riuscito.

Il giovane seduto a terra – Marcello Manzella, giovane attore molto bravo, come tutti i componenti del cast, del resto – si presenta: è il protagonista di questo Emone, di Antonio Piccolo, per la regia di Raffaele Di Florio in scena in questi giorni al Teatro San Ferdinando di Napoli. Emone è personaggio minore del mito d’Antigone, il figlio di Creonte, re di Tebe, cugino e insieme promesso sposo di Antigone, e questa storia in qualche modo rivolta il mito come un calzino, ce lo fa (ri)vedere dal punto di vista di chi, né tiranno né eroe, si trova, suo malgrado, al centro d’uno dello scontro archetipo della storia, tra potere politico ed esigenze dell’umano, destinato a non trovare mai pacificazione e sintesi.

Voleva fare il medico dei ricchi e dei poveri, sanare le ferite – forse non solo quelle del corpo, il padre lo prenderà in giro, più tardi, per la sua “predica” benintenzionata – un sogno ormai lontano e stanco per chi, come lui, discende da famiglia reale, anzi dalla famiglia reale per eccellenza, quella di Tebe, le cui storie ha appreso col latte materno, lagne su lagne, storie di morti accisi e sguardi invidiosi degli dei, il Citerone, la Sfinge, la peste di Tebe, Laio, gli oracoli, Giocasta, su su, fino ad Edipo, e poi giù, al padre Creonte, ai cugini Eteocle e Polinice che si sono scannati e che forse combattono ancora, uno, quello “buono”, sepolto con tutti gli onori, l’altro, il “cattivo”, appesta insepolto già l’aria di Tebe, e poi le belle cugine, Antigone, colei che non si piega, e Ismene, l’opaca sorella, la dolce, la bellella, colei che esiste solo in rapporto alla sorella.

E Tebe, la città degli uomini, benedetta dagli dei per la sua bellezza, la sua storia, il suo clima, dove tutto appariva felice, normale, equilibrato, d’improvviso eccola trasformata in un inferno opaco e traslucido – è quella la terra in cui ci troviamo – simile a una giostra in rovina che follemente gira intorno a se stessa trascinando con sé sepimenti che, come veli opachi di morte, sudari traslucidi, nascondono alla vista ciò che si cela dietro e dentro di loro, nelle case ormai in rovina come tombe abitate dai morti, mentre il corso regolare del tempo è interrotto, distorto, diventa storpio, zoppo, come i figli che generano le donne, mostri o nati-morti. Le sorgenti stesse della vita, corrotte, sono prosciugate, in questo non luogo, come Černobyl’ prodotto finale della noncuranza e dell’odio.

Sull’uscio d’una di queste case lunari incontra, Emone, la cugina Ismene – interpretata da un’ottima Anna Mallamaci – e subito intavolano un discorso che porta impresse, nella semplicità delle parole e nel ritmo del dolce linguaggio di quei luoghi, le stigmate d’eternità: perché da sempre, perfino in questa città dei morti triste opaca e oscura che è diventata Tebe, i giovani si parlano d’amore davanti alle porte delle case, da sempre si chiedono come Ismene “…se non fossi promesso ad Antigone…”, da sempre rispondono come Emone “…è un discorso che non esiste…”: sono, essi, i “personaggi minori”, dediti alla mitezza, quelli che esercitano, cioè, come nella definizione che ne dava Norberto Bobbio, la “più impolitica delle virtù”, perché l’immagine che hanno del mondo e della storia è quella di un mondo e di una storia in cui non ci sono né vincitori né vinti, e non ci sono né vincitori né vinti perché non ci sono gare per il primato, né lotte per il potere, né competizioni per la ricchezza. Antigone no. È già partita di buon mattino, Antigone, a tentar di seppellire il fratello, ben sapendo di contravvenire all’ordine dello zio Creonte, il re, e conoscendo anche la pena – la morte – per i trasgressori. Perché è giusto farlo.

Non interloquisce, Antigone, con gli altri personaggi: la vediamo attraversare lo spazio e la vita degli altri come se già non appartenesse a quel mondo e a quel tempo, ci vengono riportati i suoi discorsi da Ismene, dal soldato senza vocazione marziale di Gino De Luca – di lontane discendenze atellane – che fa la guardia al cadavere di Polinice, ma lei non parla: canta. Antigone, che ha corpo e voce della vocalist Valentina Gaudini, canta le antiche canzoni popolari che Luciano Berio andò collezionando e che poi raccolse, ricomposte, nelle Folk Songs del 1964, per Cathy Berberian e rielaborate elettronicamente da Salvio Vassallo: come diceva l’autore, brani nati per suggerire e commentare le radici espressive, cioè culturali, di un popolo. Se, dunque, da una parte, isolata nella cruda emarginazione delle sue stesse scelte, Antigone parla il “suo” linguaggio, per molti versi incomprensibile ai più, dall’altra c’è il potere, Creonte, eternamente uguale a se stesso, con le sue dure ragioni, in mezzo i miti, i poveri diavoli, i “normali” – se esistesse una incolpevole normalità – votati, come dice la guardia, a trovarsi “in mezzo”, tra l’incudine e il martello.

Perché poi, se Antigone si intestardisce irrigidendosi sulle proprie ragioni, pure Creonte ha le sue, di ragioni, e sono inconfutabili: nessuna polis può esistere senza legge, nessuna polis potrebbe tollerare che la si tradisca, che si prendano le armi contro il proprio paese. In un drammatico colloquio con il padre Creonte (un altero e sprezzante Paolo Cresta), Emone ammette esplicita­mente di non poter provare che suo padre ha torto e, messo di fronte alle sue responsabilità – “fai conto di essere tu il re, cosa faresti?” – tenta un’impossibile mediazione, un compromesso sdrucciolevole, un’impraticabile astuzia, che il giovane principe trova simile a quella d’Edipo: basterebbe che la terra per sotterrare Polinice non fosse lasciata cadere direttamente sul cadavere, ma lanciata in aria: è vero, ricadrebbe su di esso, ma solo successivamente, indirettamente, obliquamente, così la proibizione sarebbe rispettata, il cadavere otterrebbe una giusta sepoltura, le ragioni di tutti soddisfatte.

La risposta di Creante è tutta nella logica del potere: a chi lo esercita non basta farsi domande, occorrono anche risposte, e spesso queste risposte implicano un male immediato che, tuttavia, produrrà un bene futuro. Nonostante ciò, il discorso con Emone riuscirà a far cambiare la sentenza di morte per Antigone in carcere a vita. La decisione di Creonte è una decisione politica, presa su basi molto solide, ma le più solide basi politiche possono rivelarsi ingannevoli e vane se rimangono null’altro che “politiche”: una decisione corretta deve farsi carico di tutti i fattori, oltre quelli “politici” in senso stretto, e quand’anche pensiamo, per i motivi i più razionali, che abbiamo preso la decisione buona, questa decisione può rivelarsi domani cattiva, addirittura catastrofica, niente può garantire a priori la giustezza di un atto, nemmeno la ragione: quando Emone tenterà di portar con sé il popolo per attuare la sua ingenua soluzione, scoprirà che Antigone si sarà già data la morte impiccandosi.

È a questo punto che Emone si sottrae definitivamente al gioco delle tremende forze che agiscono su di lui, all’insopportabile tensione che si è generata: non per amor d’Antigone (di cui non è innamorato), non per il potere (che non desidera), non per un religioso senso della giustizia (che appartiene ad Antigone, non a lui), Emone si dà la morte, solo come supremo atto di riscatto della propria vita, per definitivamente sottrarla a chi questa vita ha fatto prigioniera pur non avendone che farsene: polvere alla polvere, non resta altro ad Emone che chiedersi se il suo sacrificio, dovuto non al denaro, non all’amore né al cielo, non fosse poi meritevole, alla fine, di maggior credito, almeno quanto quello accordato ad Antigone, trasmutando così, anche solo per qualche dimenticato poeta, in mito fondante dell’incertezza e della mitezza, del rispetto e della comprensione.

 

PANORAMICA RECENSIONE
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emone-non-al-denaro-non-allamore-ne-al-cieloEMONE, LA TRAGGEDIA DE ANTIGONE SECONNO LO CUNTO DE LO INNAMORATO <br>di Antonio Piccolo <br>testo vincitore del Premio Platea 2016 <br>regia, scene, costumi e disegno luci Raffaele Di Florio <br>musiche Salvio Vassallo <br>con Paolo Cresta, Gino De Luca, Valentina Gaudini, Anna Mallamaci, Marcello Manzella <br> <br>assistente alle scene e ai costumi Chiara Pepe <br>direttore di scena Nicola Grimaudo <br>datore luci Christian Paul Ascione <br>fonico Diego Iacuz <br>sarta Francesca Colica <br>foto di scena Marco Ghidelli <br> <br>produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale <br>in collaborazione con P.L.A.TEA Fondazione per l’Arte Teatrale <br>Durata: 1 ora e 20 minuti senza intervallo <br>In scena dal 20 al 25 marzo 2018 <br>Napoli, Teatro San Ferdinando, 21 marzo 2018