Edipo a Colono, il gallo di Chagall, la morte della tragedia

Prosegue, al Teatro Grande di Pompei la rassegna "Pompeii Theatrum Mundi" con "Edipo a Colono" di Sofocle, nella riscrittura di Ruggero Cappuccio, per la regia di Rimas Tuminas

Alla fine, quando tutto è compiuto, quando il mesto corteo che accompagna Edipo con le note del Libera me di Fauré verso la sepoltura che sarà per Atene difesa dai vicini, più di armi e denaro, qualcuno s’arrampica sulla torre sghemba d’assi di legno arso e annerito che ha guardato la vicenda come un albero secolare le storie degli uomini: srotola uno schermo, una luce bianca e intensa mostra a tutti il ritratto di Elmuntas Nekrosius. Fra gli applausi, una voce dedica questo allestimento alla “memoria viva” del grande regista lituano, che doveva, nei piani degli uomini, che non sempre corrispondono a quelli divini, dirigere questo Edipo a Colono, questa sera, qui al Teatro Grande di Pompei, per il Pompeii Theatrum Mundi.

La messa in scena di questo testo di Sofocle che appartiene al patrimonio dell’umanità, ma che per l’occasione è stato riscritto da Ruggero Cappuccio, è stata affidata al regista Rimas Tuminas, lituano come Nekrosius, che ha accettato di prendere in eredità quel progetto – per il quale Nekrosius aveva già svolto a Napoli due workshop con attori italiani all’interno del Teatro Festival – “ripartendo in maniera del tutto nuova e originale”. Nuova e originale come la riscrittura di Cappuccio che, pur seguendo fedelmente la vicenda della tragedia, il suo inesorabile avvilupparsi intorno al protagonista, racconto del dolore e del potere perduto, di quel passato esercizio del potere che è la vera colpa del protagonista, riesce tuttavia a risuonare come del tutto inedita al pubblico – estivo e lievemente disimpegnato ed effimero – che affolla le gradinate del Teatro di Pompei, che tuttavia segue con interesse e concentrazione la vicenda.

Ciò che, in un primo momento e più banalmente si nota, della ricca riscrittura di Cappuccio, è l’uso di un linguaggio che si muove, felicemente, espressivamente, coerentemente tra il siciliano e il napoletano, lingue mediterranee che restituiscono intatto il fascino di luoghi sacri dove l’alloro sboccia con l’olivo e la vite, che tali sono per l’ospitalità delle genti che vi abitano e che sanno restituire, nella musicalità degli accenti e nella grazia del gesto, riflessi barocchi d’un paradiso perduto e mai più ritrovato. Se non tutte le parole riescono pienamente intellegibili, un po’ per le difficoltà della lingua, un po’ per la recita all’aperto, ciò che sicuramente si percepisce è il ritmo e l’armonia, la musicalità enfatica d’una scrittura che, come una partitura, s’avvale di romanze, duetti, cori, scene complesse dove la voce dell’attore s’alterna al canto, la musica si fa dramma, ironia, struggimento, melodia che è essenziale alla totale comprensione delle cose, fin dalle prime battute, fin dal primo entrare in scena dell’Edipo (uno strepitoso Claudio Di Palma come non l’avevo mai visto) mendicante e migrante, cieco e del tutto affidato, inerme e povero, alla guida della figlia e sorella Antigone (accorata e ispirata Marina Sorrenti, che ne dà una superba interpretazione).

È il “diverso”, il “mostro”, Edipo, che, pur senza colpa, l’incatenato, il perno al centro della ruota che gira, ha commesso un delitto orribile agli occhi dei contemporanei, che va oltre ogni convenzione: non solo ha ucciso il padre, ma ne ha anche sposato la moglie, sua madre, e il frutto di questo amore dannato gli è sempre presente, sono i figli nati da questa unione, figli e fratelli insieme, tutti ugualmente destinati a un destino infausto. Nel boschetto delle Eumenidi, figlie della tenebra antica, troverà pace e riposo – non dai suoi rimorsi, quelli continueranno fino alla fine – per la sua tenebra odierna, straniero in terra straniera: lo avverte, il coro, che a lui conviene odiare tutto quello che detestiamo ed amare invece le cose che a noi tutti sono care, una spiccia maniera che rifiuta, per l’appunto, ogni possibile “diversità”.

Ma questa del coro è una storia a parte, segue una sua compiuta logica, come vedremo, così come quella della scena, disegnata, come i costumi, da Adomas Jacovskis: la torre sghemba, simbolo d’un potere obliquo e ambiguo, materica icona della forza che Edipo ha esercitato, che costituisce – non l’incesto, di cui non era consapevole, non l’omicidio, a cui fu indotto da una sciocca provocazione – la vera colpa di Edipo. Il torrione nero e occulto accomuna Edipo – nell’esercizio di quel potere che, poi, capo tra i capi, accecandosi ha rifiutato – agli altri potenti che compaiono nel corso della tragedia. Ecco Teseo (reso in modo particolarmente efficace da Davide Paciolla), signore d’Atene di cui Colono è sobborgo, elegante boss in vistoso cappotto bianco e stocco nero, dandy che si gonfia compiaciuto dell’adulazione del popolo, e che concederà a Edipo di soggiornare nel boschetto delle Eumenidi in seguito alla promessa, per Atene che custodirà le sue ossa, d’una inespugnabilità futura e permanente.

Ecco Creonte (Fulvio Cauteruccio che ne dà perfetta caratterizzazione), personificazione della necessità e della brutalità del potere cieco a qualsiasi esigenza che non sia quella dell’esercizio del potere fine a se stesso, che arriva – il potere non teme di piegarsi se necessario al maggior potere – a scongiurare Edipo di tornare a Tebe; al rifiuto di Edipo non esita a rapire le figlie sorelle, la bella Ismene (Rossella Pugliese ne rende perfettamente il carattere che ci aspetteremmo) e la coraggiosa Antigone, confermandosi così servo assoluto del potere, che poi conosceremo meglio nell’Antigone. Arriva anche Polinice (Giulio Cancelli ne sa tracciare un perfetto ritratto ideale), il figlio fratello escluso dal banchetto del potere, che aveva deciso insieme al fratello Eteocle, alla partenza d’Edipo, d’alternarsi alla guida di Tebe; venuto meno Eteocle alla sua parola, non troverà alternativa che allearsi con i nemici di Tebe e muover guerra alla città: anche lui vuole accanto a sé Edipo in questa folle impresa, al rifiuto reagisce come un bambino cui è stato tolto il gioco.

Sì, la vera colpa di Edipo è nell’obliquità di quella torre nera, nella ambiguità di cui si veste sempre il potere, la vera colpa d’Edipo, da cui vuole emendarsi con una morte serena e spoglia, libera – finalmente – perché priva di tutto, perfino delle scarpe del misero migrante, lui che ha i piedi gonfi per le ferite, è stata appunto la condivisione di questo potere. E la torre diventa allora metafora dello stesso Edipo, della sua nera cecità, del suo asciugarsi ed erodersi bruciando dal di dentro, nella rinuncia consapevole ad ogni “orpello del mondo”, fino a identificarsi con la morte stessa, nel trapasso sofferto ma sereno verso una dimensione altra e aliena, in cui, ricordando Neruda “giunge la morte, come una scarpa senza piede”.

E, poi, i letti in scena: il primo evoca il letto dove è avvenuto l’incesto, lo stesso “in cui Edipo è nato”, lo stesso in cui morirà, testimone d’una parabola singolare, certo, ma per tanti aspetti simile a tutta l’umanità, pur nell’eccezionalità della vicenda narrata: il letto al centro della rievocazione, straziata e tragica, di Giocasta, della madre e sposa suicida, dell’accecamento compiuto con due spille raccolte sul corpo ancora caldo di lei, dell’allontanarsi, cieco e rapido, nella notte, dalla città appestata.

Ma ci sono altri tre letti in scena, utilizzati dal coro, sistemati uno accanto all’altro, come a formare una sorta di paesano e rustico palcoscenico: trova patria e spazio vitale qui, su questo raffazzonato teatro di strada, da parte di un coro d’improvvisati(?) teatranti, quello che mi è sembrato l’appassionato omaggio che l’Autore e il Regista hanno inteso dedicare all’arte del recitare, alla grande tragedia classica e a tutto quanto è avvenuto dopo, in un filo rosso che da Sofocle giunge fino a Nekrosius (e dunque, non pura formalità appare, a ben vedere, il tributo alla sua memoria che chiude, sull’alta torre nera, come abbiamo detto, la rappresentazione).

Perché Edipo a Colono è considerata l’ultima tragedia, con Edipo muore anche questo modo di far teatro: nel 406 prima di Cristo muore Euripide, non riuscirà a vedere la rappresentazione delle sue Baccanti, pochi mesi dopo anche Sofocle morirà, lasciando ai posteri la rappresentazione della morte d’Edipo, in un mondo profondamente cambiato, di cui queste ultime tragedie danno testimonianza, nel fragore assordante del silenzio di Dio: se Dio c’è, certo non parla più agli uomini, ormai lasciati soli a far le loro scelte, giuste o sbagliate che siano, camminando sui loro piedi, con le loro scarpe.

Ma dalla morte della tragedia, come dalla morte del chicco di grano, può nascere, anzi nascerà altra vita, è nato il teatro, e di questo, sulle quattro assi formate dai letti di scena, danno testimonianza gli attori del coro, impegnandosi in pantomime, monologhi, canzoni, romanze, serenate – riconosco, tra l’altro, il Caligola di Camus, Oi mamma ca mo’ vene della nostrana Gatta Cenerentola di De Simone, e poi Lady Macbeth del Bardo e Ninna nanna di Modugno e poi su su in un rincorrersi che è nostalgia e e commozione, fino alla dolce e ambigua Mon coeur s’ouvre a ta voix del Samson et Dalila di Saint-Saëns – tutta una serie di recitar cantando che appassionati chansonnier, imperbi attori, madrigalisti, pianisti con bombetta, giovani soprano, ebrei chassidici con barba e payot inscenano con tamburi, cembali, chitarre, pianoforti e fisarmoniche, in un perfetto melting pot mediterraneo e giudaico, preceduti e chiamati a raccolta dal gallo antropomorfo, icona, come in un dipinto di Chagall, colmo d’ingenua poesia, del tempo e della storia, della fine e dell’inizio, del fuoco e del sole, della vita che nasce dalla morte.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
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Drammaturgia
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Pubblico
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edipo-a-colono-il-gallo-di-chagall-la-morte-della-tragediaEDIPO A COLONO <br>di Ruggero Cappuccio <br>liberamente ispirato all’opera di Sofocle <br>regia Rimas Tuminas <br> <br>con Claudio Di Palma, Marina Sorrenti, Fulvio Cauteruccio, Franca Abategiovanni, Giulio Cancelli, Davide Paciolla, Rossella Pugliese <br>coro Nicolò Battista, Martina Carpino, Cinzia Cordella, Simona Fredella, Gianluca Merolli, Enzo Mirone, Francesca Morgante, Erika Pagan, Alessandra Roca, Piera Russo, Lorenzo Scalzo <br>scene e costumi Adomas Jacovskis <br>disegno luci Eugenius Sabaliauskas <br>musiche Faustas Latenas <br> <br>produzione Teatro Stabile Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia <br>Prima assoluta <br>In scena dal 27 al 29 giugno 2019 <br>Pompei, Teatro Grande, 27 giugno 2019