
Tragùdia, in grecanico, vuol dire, com’è ovvio, tragedia. Credo sia un naturale punto di approdo, questo di Alessandro Serra, al suo Canto di Edipo, in cui esplora il mito con il consueto acume e capacità visionaria, per due motivi importanti. Il primo è che da anni il regista sardo è impegnato in un itinerario che dedica un diverso sguardo alla tragedia e al suo significato profondo, per noi contemporanei soprattutto, un percorso attraverso tappe che sono altrettanti punti di ripartenza, dal Macbettu in lingua sarda alla Tempesta sui lidi limacciosi dell’immaginario presente, arrivando oggi alla tragedia per eccellenza, quella di Edipo, di cui al Teatro Bellini di Napoli va in scena in questi giorni l’intera parabola, narrata da Sofocle con l’Edipo re e l’Edipo a Colono, in un unicum tutto recitato (e cantato), per l’appunto, in grecanico, arcaico idioma derivato forse dall’antico greco oppure da quello bizantino, e ancora oggi parlato in alcune zone intorno a Reggio Calabria, da una piccola comunità che si stima composta da un numero imprecisato di persone, intorno al migliaio.
Il secondo motivo per cui l’incontro di Serra con Edipo era inevitabile, è che fondamento di questa tragedia è il tema della verità e della conoscenza, della luce e della cecità, Edipo è colui che indaga sulle ragioni e i motivi dell’attuale rovina, vuole capirne i profondi motivi, la verità di facciata non lo accontenta, e tuttavia proprio questa sua sete di certezze – che poi è necessità di giustizia – lo porterà alla rovina: è prototipo stesso di tragedia, la sua vicenda, narrata in Edipo re, che Sofocle presentò agli Ateniesi intorno all’anno 430 prima della nascita di Cristo, all’incirca venticinque secoli fa, tempo e spazio talmente distante da noi da perdersi in rarefatta e distaccata astrazione teorica.
E tuttavia, come sempre, scopriamo, in quell’antica affabulazione, ben al dì là e al di sopra delle nostre aspettative, incredibili affinità e identità tra la nostra travagliata contemporaneità e quel passato che la miopia della distanza ci fa sembrare così arcaico e perso in un nebuloso limbo felice: Sparta a quel tempo premeva su Atene che temeva di perdere il bene più prezioso che quei cittadini erano stati capaci di inventarsi, la democrazia, pronti a difenderla in una guerra, tramandataci da Tucidide, lunga e sanguinosa. Per di più, al tempo in cui Sofocle scrive, la città era da poco uscita da una insidiosa pestilenza: tale era il numero dei morti e la rapidità degli eventi che non c’era nemmeno il tempo di onorare degnamente quei poveri morti, portati via dalla città dolente di notte per esser sepolti o bruciati lontano: cambiano i tempi, come si vede, non il dolore e la morte, non l’interrogarsi ansioso, il pianto e la collera.
Così la pestilenza diventa, oggi come allora, l’innesco della tragedia, e su questo occorre essere avvertiti: quando si parla di tragedia non ci si riferisce al fatto che nel corso dell’opera ci sono svariati contrasti tra i personaggi, che alla fine uno dei protagonisti muore, che ci sono, insomma, abbastanza lacrime e sangue, abbastanza dolore e sconfitte, abbastanza rabbia e paura.

Consiste, la tragedia, non tanto nella narrazione dell’eroe nobile e probo che soccombe di fronte ad un avverso destino o ad antagonisti moralmente riprovevoli, che è fondamento, invece, del dramma borghese (e del melodramma, che di quello costituisce l’epos), ma, invece, nella descrizione e puntuale risonanza di un protagonista diviso tra due o più istanze morali contrapposte, eticamente parimenti valide, in cui ogni tentativo di uscire dalla crisi ne provoca inevitabilmente una più grave e ancor più potenzialmente letale: e il tragico, in questa storia, non risiede nell’uccisione del padre – che Edipo non conosceva come tale, avvenuta dopo una grave provocazione e per legittima difesa – e nemmeno nel matrimonio con la madre – dato che lui non sapeva che la regina lo fosse – perché tutto questo è già avvenuto in un passato senza tempo e senza età, è ormai entrato a far parte del mito, posseduto da tutti noi.
L’attualità della tragedia consiste invece nella scoperta meravigliata e raccapricciante insieme, da parte di Edipo, di esser protagonista negativo di questa storia, addirittura responsabile della pestilenza che ammorba la Città, la sete di verità e di luce diventa il motivo portante di tutta l’opera. Noi, che viviamo in tempi liquidi di uno scisso sentire e d’imperfetto guardare, siamo di fatto disabituati alla tragedia, perfino il nostro linguaggio è ormai inadeguato, ha ragione Serra quando afferma che l’italiano sembra abbassare il tragico a un fatto drammatico, è così, il dramma – o la farsa – ci è ben più congegnale della tragedia, perfino nella musicalità del suono della nostra lingua.
L’uso del grecanico è una delle possibilità di recuperare quanto di mediterraneo possa risuonare ancora qui da noi, dopo l’omologazione della lingua operata dalla televisione nei decenni centrali del Secolo breve, che fu senz’altro positiva per tanti aspetti ma che inevitabilmente, facendoci acquistare la preziosità della reciproca comprensione ci fece inevitabilmente perdere la ricchezza della diversità, che è possibile recuperare grazie al linguaggio artistico.
Se l’arte dionisiaca per eccellenza è la musica, pura astrazione immateriale, espressione dell’apollineo è invece l’arte che impegna la visione, la luce e la sua perfetta o imperfetta assenza, la sintesi ideale tra le due modalità si realizza allora proprio nella tragedia, nel canto del traco d’antica memoria, in cui nulla è più ciò che appare, il bello e l’orrido ci sembrano appaiati correre vicinissimi sull’orlo del baratro nero, dietro la carezza ecco nascondersi il sangue della violenza estrema, la pausa dal dolore rivelarsi alla fine non già il rimedio al male del mondo ma solo apparente e temporaneo diversivo, inganno della coscienza, strabismo delle emozioni che ci fanno scambiare il bene col male e viceversa, l’emozione e la sapienza, il torto e la ragione, la libertà e l’autorità, l’identità e la pluralità.
Ciò che, allora, in un primo momento e più banalmente si nota, della ricca riscrittura di Serra, è l’uso di un linguaggio che si muove, felicemente, espressivamente, coerentemente in una lingua mediterranea che restituisce intatto il fascino di luoghi sacri dove l’alloro sboccia con l’olivo e la vite, che tali sono per l’ospitalità delle genti che vi abitano e che sanno restituire, nella musicalità degli accenti e nella grazia del gesto, riflessi barocchi d’un paradiso perduto e mai più ritrovato.

Vengono modulati, quei versi che Serra trae da Sofocle e che Salvino Nucera volge in grecanico, sul canto a cappella corale e sulle voci solitarie che Bruno de Franceschi riesce a ricavare dalla voce umana, a volte anche ripetendo versi e grida che stridono oppure risuonano la vacua ottusità della natura: se non tutte le parole riescono pienamente intellegibili, ciò che sicuramente si percepisce è il ritmo e l’armonia, la musicalità enfatica d’una scrittura che, come una partitura, s’avvale di romanze, duetti, cori, scene complesse dove la voce dell’attore s’alterna al canto, la musica si fa dramma, ironia, struggimento, melodia, in perfetta alternanza con tutti i rumori del buio e della luce, stridori e singulti, che, tutti insieme, ci restituiscono una totale comprensione delle cose, fin dalle prime battute, fin dal primo entrare in scena dell’Edipo che sale dalla platea verso il palcoscenico, verso la Sfinge che l’attende paziente, in una sorta di Prologo che ci ricorda gli enigmi e la soluzione finale che apre al protagonista le porte della città di Tebe e il regno, nella perpetua obliquità che si tende incerta tra premio e castigo, meraviglia e dannazione.
Siamo alle sorgenti stesse del mito, e tuttavia, come giustamente ci viene ricordato dal programma di sala, la tragedia è un’arte fortunata, perché gli spettatori conoscono l’intreccio già prima che il poeta lo racconti, basta ricordarglielo: il mito non interessa più di tanto l’Autore, viene dato per scontato, tutti gli spettatori dell’epoca di Sofocle conoscevano benissimo gli assi portanti di questa storia già allora diventata emblematica e archetipa, e questo vale anche per noi, moderni spettatori che ci sediamo stasera tranquilli stasera sulle nostre poltroncine di velluto rosso, grossomodo conosciamo Edipo e il suo racconto, ne abbiamo sentito parlare, qualcuno ha visto già altre volte questa stessa tragedia, altri hanno anche approfondito con letture e studi.
Ma nuova e originale può sembrarci la fabula, grazie alla riscrittura di Serra che, pur seguendo fedelmente la vicenda della tragedia – il suo inesorabile avvilupparsi intorno al protagonista, racconto del dolore e del potere perduto, di quel passato esercizio del potere che è la vera colpa del protagonista – riesce tuttavia a risuonare come del tutto inedita al pubblico, perché è ovvio che molteplici sono i possibili livelli di lettura e di fruizione, alcuni evidenti, altri meno, alcuni ben presenti all’Autore e Regista, altri, invece, possono derivare da suggestioni suscitate dalla tragedia in ognuno degli spettatori.
Il primo, e forse più patente livello di comprensione e di accesso al testo è, in tutta evidenza, quello visivo: nell’assoluto buio squarciato da una luce che, sola, lo fende dall’alto, una liturgia prende forma e sostanza, evocata dall’incenso che un turibolo dall’ampio oscillare spande in dense folate che acri arrivano alle nari di chi sta seduto in platea, ci introduce in un ambiente immerso nel buio della notte – del mondo e dell’anima – come delimitato e dominato dalla porta del Palazzo del potere in fondo e da mura ai due lati, che tuttavia presentano evidenti lesioni, rovine, calcinacci, vistosi e preoccupanti segnali di un mondo in disfacimento, un universo ctonio che vive l’attesa di un’alba incognita che porterà, con la luce, vita o morte.
Seguiamo la vicenda di Edipo come ci viene raccontata da Sofocle, prima di tutto storia di un figlio che porta su di sé il peso del suo segreto, della maledizione che si cerca in tutti i modi di evitare e che tuttavia insegue i protagonisti, insidiandone atti e gesti fin nell’intimo, Tiresia orbo e zoppo che molti segreti conosce, la sua cecità è presagio su cui si plasmerà quella di Edipo, che lo renderà impermeabile alla luce ma permeabile a ciò che gli uomini non vedono, pur guardando, Creonte obliquo uomo in stivaloni che ben sa cosa sia il potere e come va trattato, al contrario d’Edipo, Giocasta che vive, nell’assoluta inconsapevolezza dell’incesto, una qualche consapevole incertezza del suo ruolo, scisso tra tenerezza e seduzione, accoglienza e desiderio.

Così, giunto al termine della sua inchiesta, saprà Edipo che guardare in faccia la verità può accecare, può essere insopportabile, può, alla fine, ustionare lo sguardo e rendere, per una sorta di contrappasso, ciechi del tutto: a quanto è dato sapere da svariate fonti e ricerche, quegli stessi Ateniesi che assistettero per la prima volta alla rappresentazione non erano al corrente dell’ultimo gesto, l’accecamento di Edipo, spettacolare e terrificante, un vero e proprio coup de théâtre, variante della tradizione del racconto di Edipo introdotta proprio da Sofocle e successivamente entrata di diritto a far parte del mito: qui, al di là del gesto concreto dell’accecamento, sembra essere proprio la luce della scoperta del suicidio di Giocasta, che quasi brilla nel buoi di luce propria, a bruciare del tutto lo sguardo di Edipo, a precipitarlo, e noi con lui, nel buio totale.
È, il buio d’Edipo, luogo di sussurri e grida del mondo che pur vive la luce, rumori di sbieco alieni e insapori, nell’orrida consapevolezza della propria fragilità, lungo inverno freddo e caliginoso, notturna terra senza gioia, ritroviamo il protagonista mendicante e migrante, cieco e del tutto affidato, inerme e povero, alla guida della figlia e sorella Antigone. È ormai il diverso, il mostro, Edipo, che, pur senza colpa e senza alcuna condanna di legge, l’incatenato, il perno al centro della ruota che gira, ha commesso un delitto orribile agli occhi dei contemporanei, che va oltre ogni convenzione: non solo ha ucciso il padre, ma ne ha anche sposato la moglie, sua madre, e il frutto di questo amore dannato gli è sempre presente, sono i figli nati da questa unione, figli e fratelli insieme, tutti ugualmente destinati a infausto destino.
A Colono, nel boschetto delle Eumenidi, figlie della tenebra antica, troverà pace e riposo – non dai suoi rimorsi, quelli continueranno fino alla fine – per la sua tenebra odierna, straniero in terra straniera: lo avverte, il coro, che a lui conviene odiare tutto quello che detestiamo ed amare invece le cose che a noi tutti sono care, una spiccia maniera che rifiuta, per l’appunto, ogni possibile diversità. È, significativamente, bianca come la luce, Atene, città della vergine guerriera abile in battaglia, candida perché la Sapienza assomma a sé tutti i colori dell’universo, in stridente contrapposizione al nero che discolora le vesti degli abitanti di Tebe, fondata dagli Sparti e maledetta da Ares che seminò il germe della follia buia nei suoi abitanti.
E sfilano, ora, davanti a Edipo, i vedenti, i padroni della luce a lui negata: per primo arriva Teseo, signore d’Atene di cui Colono è sobborgo, in Kimono rosso e Otokomen sul volto, compiaciuto dell’adulazione del popolo, concederà a Edipo di soggiornare nel boschetto delle Eumenidi in seguito alla promessa, per Atene che custodirà le sue ossa, d’una inespugnabilità futura e permanente: “parla” con Edipo il linguaggio dei segni, Edipo tuttavia comprende quel linguaggio muto, la sua vista spazia ora guardando come trasparente il mondo della materia, fatto di carne e sangue, si nutre d’altri segni e presagi, ben oltre l’umano.
Segue Creonte, ormai in tutto personificazione della necessità e della brutalità del potere, cieco anch’egli a qualsiasi esigenza che non sia quella dell’esercizio dell’imperio fine a se stesso, che arriva – non temendo, sovrano, di piegarsi se necessario a maggior autorità – a scongiurare Edipo di tornare a Tebe minacciata da Polinice; al rifiuto di Edipo non esita a rapire le figlie sorelle, la bella Ismene e la coraggiosa Antigone, confermandosi così servo assoluto della sua stessa potenza, contraddizione vivente di ciò in cui tanto spesso cade chi esercita il governo della città e della cosa pubblica, trasformando il diritto in sopruso.

E poi arriva anche Polinice, il figlio fratello escluso dal banchetto del potere, che aveva deciso insieme al fratello Eteocle, alla partenza d’Edipo, d’alternarsi alla guida di Tebe; venuto meno Eteocle alla sua parola, non troverà alternativa che allearsi con i nemici di Tebe e muover guerra alla città, anche lui vuole accanto a sé Edipo in questa folle impresa, al rifiuto reagisce come un bambino cui è stato tolto il gioco: è vestito d’un pastrano militare e lascia cadere, da ogni movimento, polvere grigia, che alza nuvole di bianco che mille volte rifrange la luce ad ogni movimento, cenere dei morti ammazzati, presagio della propria carne e sangue e ossa fatte polvere tra poco, stavolta non c’è sangue che ingombra la scena, i morti son già cenere, sparsa abbondantemente sul palco, cerimonia propiziatrice, anancastico rito che richiama, in fondo, quello analogo dell’antica cerimonia di consacrazione del papa nuovo, il francescano – giullare di Dio – che andava spargendo cenere ricordando che pulvis es, et in pulverem reverteris e che significativamente ripete, sulla scena, Antigone: la vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi cade nell’oblio.
Sì, è nell’obliquità e nella ambiguità di cui si veste sempre il potere, la vera colpa d’Edipo, da cui vuole emendarsi con una morte serena e spoglia, libera e nuda – finalmente – perché priva di tutto, perfino del saio del misero migrante, lui che ha i piedi gonfi per le ferite: muore, Edipo, schiavo docile amante della sua nera cecità, del suo asciugarsi ed erodersi bruciando dal di dentro, nella rinuncia consapevole ad ogni orpello del mondo, fino a identificarsi con la notte stessa, nel trapasso sofferto ma sereno verso una dimensione altra e aliena, in cui, ricordando Neruda, giunge la morte, come una scarpa senza piede.
Perché Edipo a Colono è considerata l’ultima tragedia, con Edipo muore anche questo modo di far teatro; nel 406 prima di Cristo muore Euripide, non riuscirà a vedere la rappresentazione delle sue Baccanti, pochi mesi dopo anche Sofocle morirà, lasciando ai posteri la rappresentazione della morte d’Edipo, in un mondo profondamente cambiato, di cui queste ultime tragedie danno testimonianza, nel fragore assordante del silenzio degli dei: se gli dei ci sono, certo non parlano più agli uomini, ormai lasciati soli a far le loro scelte, giuste o sbagliate che siano, camminando sui loro piedi, con le loro scarpe.
Sono distanti, gli dei, alle prese con altre cose, incuranti dei desideri e delle buffonate umane. Ma dalla morte della tragedia, come dalla morte del chicco di grano, può nascere, anzi nascerà altra vita, è nato il teatro, e di questo, sulle quattro assi di questo palcoscenico, danno testimonianza gli attori di questa tragedia – oltre a Jared McNeill, che è Edipo, Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Chiara Michelini, Felice Montervino, tutti egualmente e pienamente meritevoli dei molti applausi del pubblico numerosissimo – colma di dolore e d’ammaliante poesia, del tempo e della storia, della fine e dell’inizio, del buio e della luce, della vita che nasce dalla morte.