
Cos’è un classico? Potrebbe sembrare pretestuosa una domanda come questa – di carattere, per così dire, molto generale – all’inizio di una recensione teatrale, e in parte certamente lo è, ma chiarire il concetto ci potrebbe aiutare a entrare dentro lo spirito del lavoro di cui parliamo, che nasce nel grembo della contemporaneità – come con graffiante ironia vien detto durante lo stesso spettacolo – e che certamente dunque classico non è (ancora) ma che ad un grande classico, invece, si rifà, cercando di entrarci dal di dentro: alla sensibilità e al gusto di ciascuno stabilire quanto e in che misura le motivazioni che ispirarono quel testo originario e le tensioni ad esso sottese siano presenti ancora in quella che, modernamente, si chiama rivisitazione.
Siamo infatti venuti qui al Teatro Bellini di Napoli per questo Cirano deve morire, adattamento del Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand, degli stessi autori di quel Glory wall visto, sempre qui al Bellini, alla fine dello scorso anno, dissacrante e caustico muro che descriveva in modo icastico la censura teatrale e, in qualche modo, l’inutilità della stessa stante la contemporanea situazione del teatro, descritto come pressoché già morto. Rocco Placidi e Leonardo Manzan, talentosi autori e performers, in effetti, avevano già scritto l’anno prima questo adattamento di un sempreverde classico, per l’appunto: da quel lontano 1897 in cui un trepidante e tormentato Edmond Rostand portò sulla scena, al Théâtre de la Porte Saint-Martin a Parigi, il suo Cyrano, questo personaggio è cresciuto a dismisura nella cultura e nell’immaginario collettivo, per cui non solo quest’opera è diventata una delle più amate e rappresentate nel teatro francese e internazionale, ma il protagonista e il suo celeberrimo naso è ormai universalmente noto, ispirando altre opere teatrali, cinematografiche, raggiungendo anche i fumetti, la televisione e, naturalmente, la musica, rischiando di rimanere incapsulato per sempre in un’icona, sorta di archetipo che tanto invece finisce per somigliare ad uno stereotipo scontato e vuoto.
Non è solo poeta, Cyrano, e abile spadaccino, è anche portatore di un naso straordinariamente grande, segno e inequivocabile fantasma d’ogni diversità, oggetto di derisione, certo, ma anche di assoluta unicità, così che, pur essendo uomo di straordinario coraggio, intelletto e passione non troverà, fin quasi alla fine della vita, il modo e la maniera – oltre che il fegato – di dichiararsi alla bellissima cugina Roxane. Diventa, alle porte del Secolo breve, pietra d’inciampo contro cui s’infrange ogni vuota estetica del corpo – che tanto spazio tenderà ad occupare, da quel momento in poi – scandalo, in certo senso, anticonformista e controcorrente, fonte inesauribile d’una esplosiva e fascinosa miscela di fiammeggiante romanticismo, orgoglio leonino e senso d’inferiorità che attraversa l’opera intera e la rende indimenticabile e unica: se, come diceva Calvino, è classico ciò che inevitabilmente relega l’attualità sul fondo, superandola, ma che di quella attualità non può fare a meno, pena l’inevitabile perdita della sua “classicità”, il Cyrano è ciò che ha in sé l’inestimabile dono d’esser contemporaneo ad ogni presente, vivendo questa sorta d’eternità, tuttavia, ben immerso nella storia, da cui non può prescindere.
Scrisse, Rostand, il suo Cyrano, su invito del più famoso attore francese del tempo suo, Benoît-Constant Coquelin, che lo interpretò per primo, in un momento della storia piuttosto particolare per la Francia – l’attualità sul fondo che non si può ignorare – e segna un rilevante passo verso un impossibile passato: nel momento in cui il dramma romantico scompare a favore del vaudeville di Labiche e Feydeau ed esploratori del nuovo come Čechov, Ibsen, Strindberg si fanno avanti mettendo al centro i tormenti della modernità, ecco che vien fuori un’opera immersa nel rutilante e vaporoso Secolo barocco, così perentoriamente affermativo della sua assoluta coscienza dell’intangibile da risultare incredibilmente verosimile. Fu un enorme successo che certificava, oggi come allora, nell’eterna lotta tra idealismo e positivismo, il primato del bello sul vero, dello spirito sulla materia – preso atto di come ormai, perso il Paradiso, verità e bellezza più non procedano di pari passo – con tutte le conseguenze ultime del caso: incontro tra l’ormai morente romanticismo con il nascente decadentismo, un’abbagliante festa di luce e di parola.
Perché è soprattutto di parola – evanescente, effimera trama di cui son orditi i sogni – che è intessuto Cyrano: il verso alessandrino, così inimitabilmente francese nella sua essenza e nel legame profondo con la lingua di quel popolo, che Rostand riporta agli antichi fasti dopo le modifiche – le storture – dei poeti romantici come Victor Hugo, risuona splendente e ritmico come non mai, sottolineando il talento creativo del personaggio, tanto che non sai più se sia il nasuto poeta a creare il verso incalzante e tagliente o piuttosto il contrario, il verso a creare il personaggio, ad animare un corpo altrimenti morto, tal quale la parola di Cyrano che fa vivo il bel corpo di Cristiano e fa innamorare e perdere Roxane.
È il ritmo che crea il verso – e dunque crea Cyrano – un ritmo indiavolato, con una cadenza sempre uguale e sempre diversa, in cui anche l’uso della rima è funzionale alla scansione che, in qualche modo, riproduce il battito cardiaco: non deve stupire, allora, come dal verso alessandrino Placidi e Manzan ci portino dritti dritti al rap, le due espressioni poetiche, nonostante i secoli le dividano, molto hanno in comune, prestandosi il rap ad una narrazione che procede come un treno con la stessa identica successione ritmica del verso di dodici sillabe.
E poi sa, il rap, intatta restituire l’ironia feroce del personaggio, traghettarne efficacemente le bordate, i fendenti che tagliano e feriscono, il sarcasmo irridente del calembour, dell’assonanza volgare che fa arrossire i benpensanti e scandalizza i borghesi: e c’è certamente tutto questo, nello spettacolo, e anche molto altro. Immaginano, i creatori della pièce in musica – quasi un contemporaneo e splendente melodramma, se non temessi s’offendano, a torto, gli autori – di cui Manzan cura pure la regia, finita la commedia di Rostand, morto Cristiano in battaglia, morto anche Cirano, come l’unica superstite a quel folgorante ma irripetibile attimo di gloria e di bellezza – non è così per ogni vita, forse? – Rossana (l’appassionata e struggente Paola Giannini), sia rimasta viva, certo, ma piuttosto contrariata per come siano poi andate a finire le cose: dopo la morte di Cristiano, infatti, sono passati ben quattordici anni senza che Cirano abbia trovato mai il coraggio di confessarle il suo impossibile amore, sicuramente, dirà lei, perché il suo gigantesco ego non avrebbe retto ad un possibile rifiuto.
E allora avanti, ora tocca a lei, la troviamo, entrando in sala, già pronta lassù, immobile sul suo “balcone” di tubi innocenti guardarci dall’alto, irraggiungibile come una dea in abito di scena, barocco e nero con camicia candida, in basso due figure – naso posticcio, cappellone piumato e stivaloni di cuoio – cominciano poco dopo, a luci in sala ancora accese, l’inutile, esangue rito d’un eterno e letargico duellare, che non solo non uccide ma nemmeno fa sudare. Dopo un po’ la figuretta nerovestita scende e mette fine a suon di bastonate a quella vana liturgia, metafora, senza voler troppo alto volare, del teatro e delle sue inutili cerimoniose prassi: perché questo è certamente uno dei temi portanti di questa storia, forse il maggiore, il teatro e cosa è diventato oggi in Italia, critica impietosa a tutto un mondo in cui non si salva nessuno.
Non si salvano gli autori, costretti a bassa mercificazione per potersi ingraziare finanziatori distratti e ad altro interessati, e poi opulenti e cinici critici teatrali (ohimé) da cui ottenere così una citazione, domani, su Repubblica, gli stessi recensori pigri e strabici pronti a bollare come troppo polemico il Cirano di turno che come Don Chisciotte duelli contro il nulla dei mulini a vento e a osannare un teatro, d’altra parte, che si strugge incerto tra beata incomprensibilità e noia della morte apparente: un gioco in cui tutti perdono, di fronte a spettatori oziosi e sonnacchiosi – una volta si sarebbe detto borghesi, con tutta l’accezione negativa del termine che quel tempo portava con sé – analfabeti dei foyer, sommi poeti del nulla, esteti del cliché, completamente proni e inerti di fronte a qualsiasi novità e disponibili solo a rispecchiare se stessi e i propri neghittosi difetti in un teatro anemico e tutto sommato inutile, che si nutre di passività e letargia.
Chi vuole farsi sotto, stasera? La sfida al pubblico tranquillo in platea – che poi saremmo noi – si fa strafottente, guascona e scostante come il personaggio (scontrosa interpretazione di Alessandro Bay Rossi che gli ha fruttato il Premio Ubu 2022 come Miglior attore under 35), presentato come una rockstar, il cappuccio tirato sulla testa chiama quegli spettatori – destandoli dal sonno in cui giacciono – a un duello sul filo della parola, alla fine qualcuno ci prova, a mettere insieme due zoppicanti esametri in rima baciata, l’invito è a depurarsi dalla malattia dello spettacolo dal vivo, la lotta è evidentemente impari, il ritmo incalzante, fragoroso, i riflettori puntati sulla platea, cimitero del teatro in cui entrare come un ladro per scoprire loculi e sepolcri. È un’invettiva rancorosa, violenta a tratti, spesso involgarita dalla durezza stessa del risentimento, che il rap – accampagnato come Dio comanda dalla musica e dai ritmi di Franco Visioli e Alessandro Levrero eseguiti da Filippo Lilli, lassù nell’alto del teatro – veicola a perfezione, martellando inesorabile: da Shakespeare a Pirandè / da Marlowe fino a Koltès / di tutte queste tragè / di tutte queste commè / scrivici un pezzo Molière.
La rappresentazione a Palazzo di Borgogna con cui si apre il Cyrano di Rostand giustifica un Cirano deve morire confinato a teatro e solo a teatro, la vita è altra cosa, c’è il mondo là fuori!, qui il teatro è parola che diventa carne e sangue giocando la sua dolorosa e sardonica allegria sulle consonanze, sulle assonanze e sulle rime dell’otto volante dell’iperbole, del fiorettare in punta di penna e di microfono, chi disse che la penna taglia più della spada?, questo Cirano sa colpire con efficacia anche se poi non trova in sé il coraggio di dire ti amo, meglio scendere a patti col nemico: perché Rossana la bella, fine, seria ragazza, alla fine lo vuole bello, Cristiano (che tenta di uscire dal cliché con l’interpretazione di Giusto Cucchiarini) entra dalla platea presentandosi senza nascondersi, io sono Cristiano / in testa sempre / lo stesso ritornello / stupido ma bello.
È il Cristiano che, come copione vuole, di coraggio ne ha fin troppo, gli manca la parola, prima ancora di servirsi di quelle suggerite da Cirano userà – come fanno tanti adolescenti d’ogni storia e geografia – quelle dei poeti o dei cantanti, anche Celentano va bene: io non so parlar d’amore, / l’emozione non ha voce / e mi manca un po’ il respiro, / se ci sei c’è troppa luce. Perché poi, se manca il coraggio di dirle, quelle parole, se le gambe si fanno molli e la voce trema, va bene anche un po’ di vernice rossa, tanto vale scriverlo sul muro di fronte al balcone di Rossana, un grande e inequivocabile “IO AMO” offerto in dedica alla dea, anche se l’effimera volatilità delle parole (non) dette contamina e ferisce pure quelle scritte: chi legge la scritta / può dire è soltanto / un muro imbrattato / un amore illegale / vernice sul muro / parole su carta. / La forma è diversa / la sostanza è la stessa / l’amore è inchiostro che macchia / l’amore è inchiostro che secca.
Si fa strada una vena di malinconia che ripercorre tutta la storia accorata dei tre giovani nel tentativo di Rossana di cambiarla, alla fine, quella storia disperata, nell’inseguimento vano dell’amore, per far sì che tutto, prima di stingersi definitivamente – come quella scritta di vernice rossa – nella nebbia che già sale, sul palcoscenico come nella vita, abbia un diverso esito, perché Cirano alla fine trovi in sé la forza, ben prima di morire, di confessare il suo amore non solo su un muro o sulla carta, ma nella vita. E quando finalmente Rossana – bianca, adesso, come l’opalina luna – vien fatta salire sulla scala che è la sua finestra, ben più alta di qualsiasi cosa sulla terra, vicina vicina al cielo nero della notte, sappiamo che alla fine parlerà, per tutti, in un palpitante monologo in cui porterà le voci e le ragioni dell’amore di tutti e tre, con le parole di Rostand che si fanno via via più incalzanti e piene, reclamando le sue labbra e un bacio, giuramento reso tra sé e sé / un patto più stretto… / è come un traguardo / che insieme è un avvio, / un punto rosa acceso / sulla “i” di “amore mio”, / un bisbiglìo alle labbra / perché l’orecchio intenda, / il brivido del miele / di un’ape che sfaccenda, / una comunione presa / al petalo di un fiore, / un modo lungo e lieve / di respirarsi il cuore / e di gustarsi in bocca / l’anima poco a poco.
Ma sarà ancora Rossana a dirle, le parole che perderanno Cristiano, t’amerei ancora, dice, pure se fossi brutto, e la consapevolezza uccide, a volte: Cristiano muore / e lui resta… / Cristiano al fin / della licenza muore. E tuttavia la storia non cambia, non può cambiare, un classico teatrale, poi, men che meno, domani Rossana salirà di nuovo su quel balcone, una nuova rappresentazione – a Palazzo di Borgogna come in un qualsiasi teatro di questo mondo – comincerà, Cirano deve inevitabilmente morire, ancora una volta, come sempre, sprecando quattordici anni di felicità inespressa e inesprimibile. Tuttavia, prima della fine, questo Cirano desidera salutare Rossana per l’ultima volta: immaginano, gli Autori, con un notevole colpo d’ala, che Cirano morto si ritrovi sulla luna, quella stessa luna color zafferano dove il vero Savinien Cyrano de Bergerac fantastica di poter arrivare, in quel primo capolavoro di scrittura fantascientifica scritto nel 1657 che è L’altro mondo. Gli stati e gli imperi della Luna.
Titolo ambiguo, potendo indicare, l’altro mondo, sia la Luna che l’oltretomba: di lì rivolge il suo canto a Rossana: fare e disfare / questo soltanto / il mio intendimento: / se la realtà mi fa schifo / io la reinvento / e faccio sì che un rifiuto / diventi un assenza. / Se poi verrà il trionfo, / per altro o per fortuna / godermi la sua gloria / sull’opalina luna / e mai dover scusare / quell’unico difetto: / che il dispiacer mi piace / dell’odio mi diletto! Deve morire, dunque, Cirano, perché la verità possa contar più della bellezza, perché possiamo riappropriarci senza vergogna e con un minimo di coraggio e di decenza di ciò che chiamiamo “classico” pur sapendone guardare i limiti e i difetti, anzi proprio per questo, come un naso grosso e sproporzionato. Cirano deve morire perché se la realtà fa schifo, il teatro possa eternamente reinventarla e, come disse un altro misconosciuto poeta come Julio Cortázar, non sia più possibile guardare a un “classico” sacrificando la verità alla bellezza, deve morire, Cirano, perché se il chicco di grano non muore non dà vita: la vita del teatro, lontano da ogni vuota liturgia, reinventando ogni istante come continuo, inesausto, inesaudito attimo creativo.