
Nel secolare Teatro del Giglio di Lucca si respira aria di gala: gli spalti sono sovraffollati per ascoltare e vivere la messa in scena della Turandot, “stupenda incompiuta” di Giacomo Puccini. Un’opera dalle mille sfaccettature il cui finale resta ancora un mistero nonostante il grande lavoro di musicologi e storici realizzato durante questi decenni. Vari sono stati i finali apportati a quest’opera: Alfano insieme a Toscanini, Berio e perfino il giovane cinese Hao Weiyna hanno proposto varie soluzioni. Per questa rappresentazione al Teatro del Giglio, è stato deciso di seguire fedelmente la partitura dell’opera sin dove Puccini prima di morire l’ha composta, cioè fino alla morte di Liù nel terzo atto, lasciando l’opera e lo spettatore senza un vero finale.
Ma partiamo dall’inizio.
Primo Atto.
L’opera si svolge “al tempo delle favole”, in un’ambientazione fantastica ed esotica,la Cina, sorta di regno del sogno, dell’eros, del sangue e della sulfurea luna.
Qui vive l’algida e sanguinaria Turandot, bellissima principessa, che ha dettato una terribile “legge”: andrà sposa a chi, di sangue regale, scioglierà i tre enigmi da lei proposti, ma chi fallirà nell’impresa sarà inesorabilmente decapitato. Quest’ultima è la sorte dello sfortunato principe di Persia, che salirà al patibolo al sorgere della luna. La folla eccitata travolge il vecchio Timur, re tartaro spodestato, e la piccola Liù, che invoca per lui soccorso. È qui che il principe Calaf ritrova il padre, ne ascolta la storia e quella di Liù, la fanciulla che ha condiviso le sofferenze di Timur soltanto perché Calaf un giorno le aveva sorriso. Si avanzano i servi del boia, mentre Turandot appare sul loggiato e ricusa le richieste di grazia della folla. Il principe Calaf, rapito dall’inattesa visione di bellezza, avanza verso il gong, pronto ad affrontare gli enigmi. Timur, Liù e i tre ministri Ping, Pang e Pong tentano di dissuaderlo, ma il principe è risoluto e si affretta a dare i tre colpi di gong per essere ammesso alla prova.
Secondo Atto.
Quadro primo. I tre ministri Ping, Pang e Pong si riuniscono per ripassare sia il protocollo nuziale sia quello funebre, per esser pronti ad allestire l’uno o l’altro a seconda dell’esito della nuova sfida lanciata a Turandot dal principe ignoto. I tre si abbandonano poi al ricordo dei tempi felici, prima della nascita della principessa.
Quadro secondo. Sul piazzale della reggia tutto è pronto per la prova degli enigmi, a cui assiste anche il vecchio imperatore Altoum. La principessa avanza e prima di dare inizio al rito spiega le antichissime ragioni che la spingono a tanta ferocia. Vinta dal principe, che risponde a tutti e tre gli enigmi, Turandot implora invano il padre Altoum di salvarla dalle braccia dello straniero. Ma è lo stesso Calaf a rinunciare alla vittoria e a proporre a sua volta una prova a Turandot: qualora ella avesse saputo svelarne il nome prima dell’alba, egli avrebbe accettato di morire.
Terzo Atto.
Nel giardino della reggia, per volontà di Turandot, tutti vegliano e cercano di conoscere il nome del principe ignoto. Anche Calaf veglia, in attesa della vittoria definitiva dell’alba.
Per carpire il nome del principe ignoto i tre ministri gli offrono ogni bene, ma il principe rifiuta qualsiasi proposta. Emissari imperiali introducono allora Timur e Liù, sospettati di essere a conoscenza del nome segreto. Liù non è disposta a tradire Calaf, affrontando con determinazione i tormenti, fino al suicidio pur di non svelare il nome del principe ignoto. Il compianto di Timur e di Calaf sul corpo di Liù morta avvia il corteo funebre.
E qui s’interrompe l’opera pucciniana.
Il soggetto, tratto da una fiaba teatrale di Carlo Gozzi rappresentata la prima volta nel 1762, entusiasmò subito Puccini; ma la fiaba originale aveva un lieto fine, che vedeva una nuova Turandot sciolta da un bacio passionale di Calaf scoprire l’“Amore”. Tale finale vide un Piccini pieno di dubbi lavorarci per un intero anno, incapace di venirne a capo. Infine il compositore morì a Bruxelles nel 1924 lasciando l’opera incompiuta.
Domenica 22 novembre vede come protagonisti il tenore Enrico Nenci (Calaf) che si distingue per la pienezza del timbro, ma si mostra esitante nelle variazioni complesse; la soprano Nila Masala (Turandot) imperiosa e statuaria come vuole il personaggio, con un registro acuto notevole, che non sempre però riesce a raggiunge con lucentezza e fluidità; Mina Yamazaki (Liù), dai tratti angelici ma che fatica a prender corpo. Un bel ritorno sulla scena del Giglio invece per il basso lucchese Luigi Roni, un Timur commuovente con una possente intonazione canora. Note di colore interessante infine sono i tre “ministri del boia”, tra i quali spicca un bravissimo Leo An, molto espressivo nel timbro come nella fluidità della mimica.
L’Orchestra, il Coro e il Coro Voci Bianche sono del Festival Pucciniano.
Il direttore d’orchestra è Giuseppe Acquaviva, Maestro del Coro Francesca Tosi, Maestro del Coro Voci Bianche Susanna Altemura.
La messa in scena classica, sotto la regia di Maurizio Scaparro (ripresa da Susanna Attendoli), non è particolarmente originale e vede un allestimento seducente ma non innovativo dal punto di vista scenico e recitativo. Originariamente pensato per il Gran Teatro all’aperto di Torre del Lago, si presenta qui in una versione riadattata e ridotta per il teatro al chiuso. L’effetto è claustrofobico e ridondante in uno spazio così lontano dalle caratteristiche originali, forse sarebbe stato auspicabile un allestimento nuovo, più semplice ed arioso, che permettesse alla moltitudine di personaggi che popolano l’opera e al grande coro di dispiegarsi sulla scena in maniera più fluida e meno stipata.
Altrettanto sofferto il Coro di Voci Bianche, chiuso nell’angusto palchetto n.1.
Sgargianti ed eleganti invece i costumi, firmati da Franca Squarciapino, premio Oscar nel 1991 per i costumi del film Cyrano de Bergerac, che ancora una volta si dimostra maestra delle emozioni cromatiche che vanno ad arricchire la scena: pesanti tuniche dai toni grigio-blu per il popolo di Pechino, vesti brillanti per i tre ministri, abiti impreziositi da gemme e strass per la principessa, in netto contrasto con il dimesso abbigliamento di Liù. Il notevole impianto illuministico si rivela determinante per la valorizzazione di tutti questi pregevoli elementi e per l’efficace resa delle atmosfere, dal blu lunare agli accesi giallo e arancio.
L’opera, molto gradita dal pubblico, è stata applaudita a scena aperta durante varie arie: grande entusiasmo per la classicissima aria “Nessun dorma”, che ha ottenuto il bis.
Resta solo il dubbio di un finale sospeso, mai concluso, misterioso. Come canta Calaf aspettando l’alba “il mio mistero è chiuso in me”, ed il mistero di quest’opera resterà così per sempre, in eterno, chiuso nella clausura fisica e mentale della principessa di ghiaccio, nel cuore gelido di Turandot.