
[rating=4] E si ha un bel dire e ciarlar di suono wagneriano, quasi fosse un vagheggiato sound chimericamente e chimicamente composto e scomposto d’elementi (a somiglianza del mito) primordiali e potenti: caratteristica dell’orchestra che più teutonica non si può, cogli ottoni strappati ch’esondano immancabili e immarcescibili, archi che tracciano come fosser travi frasi massicce e tese e dense come compatta gelatina, legni traccianti le volute arcane e sacre d’una mistica sfatta e ambigua dalla ricercata complessità. Risultato non già d’espressività plasmata, quanto di germanica tecnica spinta e coltivata, ch’è possesso e retaggio dalle orchestre intorno al Reno, e che trova massimo tempio e risonanza in quel di Bayreuth, quel suono è, come alemanna fenice, introvabile nel paese dove suona invece il sì. Si cerca e si trova – invece (e forse meglio…) – qui, proprio in quel San Carlo che dei teatri dell’Opera italiana tanto bistrattati dal Maestro di Lipsia è modello archetipo e felice (ironie della storia), un diverso e più leggiadro Wagner, ibrido prodotto del genio tedesco e dell’impasto magistrale italico, costretti a felicemente convivere e amarsi da quel grande alchimista stregone – e quanto conoscitore profondo dell’una granitica plasticità e dell’altra erborea versatilità – ch’è il Maestro Mehta, per la prima volta qui nella terra di Partenope a cimentarsi con Tristan und Isolde. Questa incredibile e fatale combinazione d’elementi (Wagner, l’Orchestra del San Carlo e la lor mistura catalizzata da Zubin Mehta) produce alla fine qualcosa – e ve lo assicura un wagneriano doc dall’età di quattordic’anni – d’inaudito e d’indicibile, che è tuttora pienamente e rocciosamente e voluttuosamente Wagner ma ch’è pure altro, negl’impasti che volano leggeri e nelle tinte trasparenti e liquide.
E se il preludio annuncia – come sempre – prima il sospeso tema di Tristan poi il complementare tema d’Isolde, e poi, dall’incontro loro, il discordante Tristan-Akkord – che tanti fiumi d’inchiostro ha generato, come feconda origine della nostra modernità – è col tema dello sguardo, dal segreto ritmo suo, che t’accorgi della novità della serata napoletana: un inusitato retrogusto di calore e allegria malinconica che screzia d’attutita luce soffusa l’armonia del desiderio wagneriano. Confesso di non essere riuscito a trattenere una lacrima. Sarà la vecchiaia. E quando s’alza la tela, a bordo ti ritrovi della vichinga nave di Tristano. È la scena d’Ezio Frigerio per il prim’atto, quest’enorme prora di dragone che solca un mare tranquillo sotto un cielo annuvolato e procelloso, tanto che l’ira d’Isolde contro Tristan lo fa lampeggiare all’orizzonte. La regia di Lluìs Pasqual (ripresa da Caroline Lang, l’allestimento originale è infatti del 2004, proprietà del Teatro di San Carlo, dove all’epoca inaugurò la stagione) prevede infatti una ambientazione in epoche diverse per ogni atto, con il mare come trait d’union, presente in ogni scena, simbolo stesso della musica di Tristan, sostanziale incarnazione della melodia ascensionale infinita e irrisolta che lo caratterizza. Così, il medioevo epico e leggendario e primitivo dei filtri e delle misture, del sangue e delle teste mozzate fornisce la chiave di lettura del primo atto; il second’atto che, com’è noto, è interamente occupato dalla più lunga scena d’amore della storia dell’opera, è, un po’ ovviamente, ambientato in un romantico boschetto ottocentesco, coi personaggi in divisa azzurro prussiano; il terz’atto, più interessante, ambienta il castello della bretone Kareol in un ospedale nella prima metà del secolo della modernità, dove l’insanabile ferita che Tristan s’è procurato mai verrà a guarigione.
L’idea della progressione temporale non è in verità molto originale, anche solo riferita alla messa in scena wagneriana: basti pensare a quella famosissima – e a suo tempo contestatissima – del Ring del Centenario che s’incarna in un tempo teatrale che va dalla metà ottocento agli anni trenta del novecento, fornendo un notevole spaccato di vita tedesca dalla formazione della nazione agli albori del nazismo. In effetti la filosofia della messa in scena delle opere di Wagner ha sempre oscillato tra il naturalismo spinto e l’astratta e atemporale rappresentazione del mito, passando dalle ingenue e sovraccariche messe in scena del primo novecento fino alla rivoluzione del secondo dopoguerra di Wieland Wagner del palcoscenico invisibile che si concentrava sulla musica e la recitazione; fu appunto negli anni ’70, con il citato Ring di Patrice Chereau che il mito ritorna nella storia concreta degli uomini. In ogni caso la regia dello spettacolo napoletano, al di là del complesso problema di Wagner sulla scena, offre momenti di grande suggestione e bellezza, come l’arrivo della nave in porto al primo atto, il canto velato di Brangäne al secondo, e tutto il terz’atto fino al Liebestod. Molti hanno voluto vedere, nell’ambientazione “ospedaliera” dell’ultim’atto un esplicito richiamo a Thomas Mann e al sanatorio “La Quiete” di Tristano, e anch’io confesso d’averci un po’ fantasticato su, leggendo le cronache, fino a ieri, quando ho finalmente visto lo spettacolo: non mi è parso avere nulla, in verità, la regia e il senso dell’atto, del racconto di Mann e dell’arguta ironia sua, tranne l’ovvia ambientazione. A me è invece sembrato una riuscita rilettura in chiave borghese e moderna del mito romantico: sofferenza d’un uomo solo in un letto d’ospedale, in attesa della moglie lontana, sicuro che il solo rivederla lo risanerà; ma la donna ritarda, e quando finalmente arriva, lui muore tra le sue braccia: il Liebestod diventa espressione dell’amore che li ha legati, dichiarazione ultima e solenne e commossa dell’amore di una vita, che non s’arrende alla morte ma che continua e vive e vivifica ben oltre la materia corruttibile delle cose, perdendo in esaltazione epica ciò che acquista in verità. Chissà se sarebbe piaciuto a Wagner, questo modo un po’ casalingo e antieroico di rappresentare Tristan. Probabilmente no, ma scommetto che molti dei più moderni wagneriani – il citato Thomas Mann o G. B. Shaw, per esempio – l’avrebbero trovato quantomeno interessante.
Che dire di Violeta Urmana che non sia già stato detto? Dei suoi acuti, del suo timbro pieno e avvolgente, dell’arte sua del fraseggio raffinato, della sicurezza con cui domina la scena? Ha l’aria, il già detto e il già sentito che potrei azzardare, d’inutile ripetizione ch’irrita e stanca, perciò mi taccio. Il monologo wagnerianamente verbosissimo del terz’atto è arduo banco di prova per qualunque Tristan e Torsten Kerl supera l’ostacolo, pur stentando un po’: lo ricordiamo nello stesso ruolo all’inaugurazione del Maggio Musicale Fiorentino sempre sotto la direzione di Zubin Mehta. Anche Lioba Braun, la Brangäne del nostro spettacolo, era in quel Tristan fiorentino, curiosamente però nel ruolo d’Isolde: l’appassionato piglio e la tenuta tecnica della cantante, specialista wagneriana, sono fuori discussione. Molto applaudito il Re Marke di Stephen Milling, dalla voce robusta, anch’egli, nello stesso ruolo, alla rappresentazione fiorentina. Jukka Rasilainen disegna un Kurwenal brusco ed energico. Alla fine grande entusiasmo e applausi: alla riapertura del sipario l’intera Orchestra è sul palcoscenico, a goder gli applausi che il Maestro ha voluto condividere. E se non ora, quando?