Salome tra esaltazioni fauve e iridescenti bioplastiche

Torna, con la primavera, al Teatro San Carlo di Napoli "Salome" di Richard Strauss

Salome © Teatro San Carlo ph Luciano Romano
Salome © Teatro San Carlo ph Luciano Romano

Sie ist wie der Schatten einer weißen Rose in einem silbernen Spiegel  – Sembra il riflesso di una rosa bianca in uno specchio d’argento: lo sguardo innamorato del giovane Narraboth è acuto, l’apparizione lunare di Salome, bianca e fredda, nera e calda nella notte definisce, fin dall’inizio e una volta per tutte, la tonalità di fondo, la dominante dell’intero atto unico, erraticità lunare che si riflette nello specchio – a ben pensarci, la luce della luna è essa stessa luce riflessa – e che non riscalda mai, frullar d’ali di colombe bianche, pallori e farfalle bianche.

Qui al Teatro San Carlo di Napoli con Salome di Richard Strauss torna la luna ad illuminare la terrazza di marmo nero del Palazzo d’Erode, ricreando un algido mondo illuminato dall’esangue luce lunare e ammorbato dal frullar dell’ali nere dell’Angelo della morte e rinnovando, in fondo, un rito, che poi è quello della messa in scena di quest’opera che ancora esercita intatto il suo fascino su noi che abitiamo l’oggi, un affascinante esempio di adattamento musicale e drammaturgico. Scoprì Salome, il compositore viennese, quando ormai s’avviava ai quarant’anni, dopo i wagneriani cromatismi di Tod und Verklärung e i cascami tardoromantici di  Also sprach Zarathustra, nel 1902 lesse per caso il poemetto di Oscar Wilde nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann e ne rimase folgorato: il testo, con il suo stile decadente, la carica sensuale e il simbolismo estremo, si adattava perfettamente al linguaggio musicale e teatrale che Strauss cercava faticosamente in quegli anni, decise così di mutarlo in opera lirica, rimanendo molto fedele alla traduzione di Lachmann e mantenendo quasi integralmente i dialoghi originali.

La scrittura di Salome avvenne, allora, tra il 1903 e il 1905, affrontando insieme una sfida musicale – risolta grazie a uno stile espressionista, con armonie audaci e scrittura orchestrale densa e poderosa, in cui l’uso di cromatismi e dissonanze spinte al limite del linguaggio tonale – e drammaturgica – riuscendo a condensare l’opera teatrale in un atto unico di un’ora e mezza mantenendo la tensione drammatica e l’equilibrio tra testo e musica. Avvenne, la prima,  il 9 dicembre 1905 alla Semperoper di Dresda, diretta da Ernst von Schuch, il successo fu clamoroso ma l’opera provocò ovvio scalpore per la sua audacia musicale e tematica, accolta con entusiasmo da Mahler e Schoenberg mentre altri critici la giudicarono immorale e decadente, soprattutto per certi passaggi che riguardavano il tema scabroso della lussuria, della necrofilia e del fanatismo religioso, creando forti opposizioni, specialmente per la scena del bacio sulla testa mozzata di Jokanaan.

E tuttavia, in questo preciso senso, Salome è il Novecento: se nel 1900 Tosca fece da battistrada, seguita da Pelléas et Mélisande nel 1902 è con quest’opera che il segnale di novità è talmente allarmante, dal punto di vista armonico, melodico, strutturale, ritmico, da essere inevitabilmente rifiutato, osteggiato, negato, denunciando la perdita di ogni conosciuto riferimento e insieme l’inevitabile spaesamento nel cercarne di nuovi, fino ad essere, la sua esecuzione, vietata in diversi teatri, Vienna stessa, patria dell’Autore, che rifiutò di metterla in scena fino al 1918.

Qui a Napoli arrivò nel 1908, con molte polemiche alla vigilia, riguardanti, notano i cronisti dell’epoca, non tanto l’erotismo quanto piuttosto un certo modo d’intendere il religioso: in fondo la storia di questa ragazzina ebrea del primo secolo ha tutti gli ingredienti per suscitare scalpore e tutte le carte in regola per essere, ancor oggi, terribilmente attuale, in quel continuo rimpallo tra abuso di potere e amori di ragazzine minorenni, alta spiritualità e terrori superstiziosi, mentre si perde, la politica, in inutili ed estenuanti discussioni sul nulla.

Salome © Teatro San Carlo ph Luciano Romano

È qui, in questa descrizione desolata e satirica, cinica e senza speranza, che molto c’è di eterna attualità non solo sociologica, la narrazione non esaltante del sempreverde bunga-bunga di volgarità ed eccessi che descrive sostanzialmente una società in rovinoso e irrimediabile declino morale, giunta forse alla completa amoralità.

Questo particolare allestimento, poi, già messo in scena una decina d’anni fa – la mia recensione la troverete qui – ha l’indubbio merito di render sostanziale, pur nel rispetto apparente della tradizionale mise-en-scène dell’opera, esattamente questa inquietante, perenne, claustrofobia attualità: rispetto a quell’edizione cambiano i costumi – molto belli e fantasiosi questi, disegnati da Daniela Ciancio, realizzati in ScobySkin, una sorta di neoplastica dai riflessi luminosi derivata da prodotti vegetali – e le luci, firmate da Claudio Schmid, per quanto posso ricordare, molto più espressioniste delle precedenti, scavando e definendo più decisamente movenze e sentimenti.

E allora riesce, Manfred Schweigkofler, forse più perentoriamente d’allora ma con la solita concretezza che sa di sguardi rubati all’arte e alla storia – intuizioni sempre colte nel momento stesso della felicità del pensiero sorgivo – ad immergerci fin da subito in un universo che impone la propria natura identificandosi in colori brillanti e irreali, che rispondono non certo a esigenze naturalistiche bensì simboliche: il blu per la spiritualità, il rosso per l’erotismo, il verde per il sogno, la pietra grigia per il potere che corrompe, che guasta, che corrode, spesso accostati in modo inaspettato, ricreando atmosfere fiabesche e cariche di emozione, che si aggiungono al bianco del corpo di Jochannaan – weiß wie der Schnee auf den Bergen Judäas – e al nero dei suoi capelli – wie Weintrauben, wie Büschel schwarzer Trauben, an den Weinstöcken Edoms – in una tavolozza che riflette l’iridescente luccicore della musica.

Con la magnifica complicità delle scene di Nicola Rubertelli lasciamo che si posi lo sguardo nostro su sospese citazioni, accese atmosfere, fili spinati e simboli del potere dall’evanescente e vuota doratura: paese delle meraviglie postmoderne dove trovano tranquillamente ricetto e accoglienza il continuo riferimento yiddish alla tradizione e, insieme, il gusto kitsch di un mondo altro, entrambi portando in sé le stimmate d’un vertiginoso vuoto esistenziale.

Memoria, fantasia e spiritualità evocano così un mondo senza tempo, dove passato e presente – e forse futuro – si sovrappongono, in cui è facile scorgere tracce dell’iconografia russa e insieme della pittura fauve e cubista: rimane, allora, la scena, sospesa tra esasperazione d’una pesante tradizione – che cerca e trova il suo più esaltante momento nel terribile e magnifico dipinto, in forme e gusto chagalliano, che, a mo’ di tappeto, ricopre scale e assito e che si riflette nell’enorme specchio ad angolatura variabile che ce ne rinvia lacerti diversi a seconda degli stati d’animo che su quelle tavole si vivono – e vanesia futilità d’un potere stupido e arrogante che colora ipocritamente d’azzurro gli altissimi muri di cemento armato sovrastati da matasse di filo spinato, a donar riparo agl’incubi fobici del corroso potere d’Erode, invalicabile limite che invita alla distruzione.

Salome © Teatro San Carlo ph Luciano Romano

E quel limite, in buca, s’incarica di abbatterlo Dan Ettinger, che s’intesta una direzione appassionata che sa ricreare, nella piena risonanza emotiva, l’enorme novità che questa musica seppe suscitare: nessuna indulgenza a wagnerismi superflui, il riscatto dalla musica dei padri è qui attestato e pieno, magnifica la rispondenza delle percussioni, esacerbate, nette nella loro incessante barbarica progressione, aspre nella forma e nella sostanza.

L’orchestra straussiana fa vibrare come poche le nostre più recondite emotività, Ettinger forza il ritmo sacrificando forse eccessivamente delicatezze sfumate, ossessivi descrittivismi e decorativismi nevrotici alla base della fatidica musica nervosa che il padre dell’Autore, bontà sua, si premurò di descrivere come se tanti scarafaggi ti scorrazzassero nei pantaloni: e tuttavia riesce, pur nella consueta opulenza dei volumi, a trovare una sua propria intelligenza interpretativa, una peculiare strada illuminata da intuizione estetica e narrativa.

Anche perché poi, là, sul palcoscenico, c’è lei, Ricarda Merbeth in gran serata, Salome per nulla estetizzante ma che sa, invece, scavare nel profondo, cercando e trovando la giusta misura per un personaggio insieme volatile e oneroso, senz’altro uno uno dei più impegnativi, cantato in una tessitura difficile e impervia, esigendo presenza scenica quasi costante. Lei, che l’anno scorso ci ha saputo donare quell’eccelsa Elektra di cui dicevamo qui,  ha voce imponente e voluminosa con un controllo superbo e un registro acuto emozionante che, senza punto disturbare, suona a volte aspro al punto giusto, contraddittorio, lacerante come il personaggio: attrice consumata, sa essere ora terrificante, ora dolce, ora misteriosa, ora erotica, sempre credibile, mai fuori misura.

L’angloamericano Charles Workman interpreta il ruolo di Erode, lasciandoci un ritratto lascivo e malizioso del patrigno, grazie a un piacevole strumento tenorile brillante e levigato, in grado di sostenere con naturalezza anche sonorità baritonali: ci appare al suo meglio quando supplica Salome di essere ricompensato con qualcosa di diverso dall’oscena sua richiesta, tuttavia la sua interpretazione è ancora in divenire, ci sono senz’altro ampi spazi di crescita.

Lioba Braun è un’Erodiade dal timbro gradevole e dalla credibile presenza scenica, soffrendo tuttavia, la sua voce, più di altri, gli intensi volumi orchestrali, mentre Brian Mulligan ci restituisce un Jochanaan dal timbro chiaro e terso, forse un po’ troppo per un personaggio che richiederebbe anche una più ieratica presenza.

Alla fine molto applausi per la protagonista e per il direttore, nessuna contestazione per la regia, e questa, di per sé – nel giorno dell’addio, senza successori, del Sovrintendente Stéphane Lissner, così inviso a certa nostalgica melomania – è buona notizia.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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salome-tra-esaltazioni-fauve-e-iridescenti-bioplasticheSalome <br>Dramma in un atto <br>Musica di Richard Strauss <br>Direttore, Dan Ettinger <br>Regia, Manfred Schweigkofler <br>Scene, Nicola Rubertelli <br>Costumi, Daniela Ciancio <br>Luci, Claudio Schmid <br>Coreografia, Valentina Versino <br>Herodes / Erode, Charles Workman <br>Herodias / Erodiade, Lioba Braun <br>Salome, Ricarda Merbeth <br>Jochanaan, Brian Mulligan <br>Narraboth, John Findon <br>Ein Page der Herodias / Un paggio di Erodiade, Štěpánka Pučálková <br>Erster Jude / Primo Giudeo, Gregory Bonfatti <br>Zweiter Jude / Secondo Giudeo, Kristofer Lundin <br>Dritter Jude / Terzo Giudeo, Sun Tianxuefei <br>Vierter Jude / Quarto Giudeo, Dan Karlström <br>Fünfter Jude / Quinto Giudeo, Stanislav Vorobyov <br>Erster Nazarener / Primo Nazareno, Liam James Karai <br>Zweiter Nazarener / Secondo Nazareno, Žilvinas Miškinis <br>Erster Soldat / Primo soldato, Alessandro Abis <br>Zweiter Soldat / Secondo soldato, Artur Janda <br>Ein Kappadozier / Un uomo della Cappadocia, Giacomo Mercaldo <br>Ein Sklave / Uno schiavo, Vasco Maria Vagnoli <br>Orchestra del Teatro di San Carlo <br>Produzione del Teatro di San Carlo <br>Opera in tedesco con sovratitoli in italiano e inglese <br>Durata: 1 ora e 40 minuti circa, senza intervallo <br>In scena dal 20 al 29 marzo 2025 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 20 marzo 2025