Metastoria d’una rivoluzione: Andrea Chénier

[rating=3] Quando, poco più che bambino, ascoltavo la musica che usciva da un vecchio giradischi, pago dell’emozione che mi regalava, pur evitando di spiegar colla ragione ciò che il cuore provava – per tutto c’è un tempo adeguato – cercavo tuttavia di comprender con fatica le parole che quei cantanti pronunciavano, suggerendo sogni vividi e lontani. C’era un brano che, allora, attirava in particolare la mia attenzione, perché, pur colle stesse cadenze appassionate d’altre romanze d’amore, al perduto bene dedicate, evocava tuttavia immagini ed espressioni – azzurro spazio, prati colmi di viole, un prete che accumulava doni, un vegliardo che invano chiedeva pane, le lacrime dei figli – che mal s’acconciavano col clichè un po’ scontato del romantico amore per l’eterno femminino dell’opera, che si chiami Leonora, Mimì o Lucia: come ignorare che, alla fine, la carezza e il bacio che riceve quel personaggio (Andrea Chénier, a legger l’etichetta sul disco) non veniva dalla benamata, ma dalla patria sua? E la musica, che a me pareva bellissima e sfolgorante come il sole citato in quei lacerti di parole che riuscivo a cogliere, accompagnava, gonfiava il palpito, finiva per provocare un piacevole e sconcertante e inebriante brivido lungo la schiena.

‎Andrea Chénier‬ ph Francesco Squeglia

Mi scuso di aver aperto con quest’episodio riferito ai miei ricordi personali delle primissime esperienze musicali, ma l’apologo mi serve a render manifesta quella stranezza, anomalia, divergenza strutturale tra parola e musica, apparenza e intenzione, messa in scena ed ideazione, che, bambino – e dunque privo dalle sovrastrutture culturali dell’adulto – intuivo profonda e caratteristica di quest’opera: passati, ahimè, gli anni, perduta l’innocenza, mi sembra tuttavia ancor questa la giusta chiave interpretativa del mondo di Andrea Chénier, del suo eterno non scontato dibattersi tra popolarità – comprensivo, il termine, d’un presunto ipotetico problematico popolano verismo – e intellettuale metastorica parabola sul potere, e sui modi con cui esso irretisce e corrompe menti e ideali, in particolare indagando i rapporti ch’esso intesse con l’arte, e con gli artisti in carne ed ossa. Questa dicotomia fondamentale riflette probabilmente le diverse (a volte divergenti) intenzioni dei due autori Giordano e Illica: interessato certamente di più il primo all’enfasi retorica dell’italietta fin de siècle nazionalista veteroromantica e posticciamente verista, intesse la sua musica d’empito drammatico gonfio e squillante adatto ai tempi, alla ricerca d’effetto e lacrima; più introspettivo e caustico il secondo, non risparmia amarezza e ironia ai sempiterni idoli del potere, che si serve d’uomini diversi, e di discordi idealità, perché quello stesso potere possa esercitarsi senza null’altro fine che se stesso. In questo senso, e a ben pensarci, diventa allora del tutto occasionale l’ambientazione storica ai tempi del Terrore, che pure sembra esser così pregnante e soverchiante: interessa solo in quanto topico momento di cambio di potere, che mette in crisi e alla prova uomini, idee ed estetiche. E la stessa storia d’amore è pur’essa solo pretesto e, nella sua ineffabile inverosimiglianza si rivela per ciò che è, storia che non ha storia, se pur l’amore con Andrea poteva esserci, viene dalla circostanze del tutto proiettato e rinviato in un ipotetico e inesistente futuro: di chi è innamorata, Maddalena, se non dell’idea dell’amore, di un inesistente e fumoso fantasma della mente? E a quest’idolo è disposta a sacrificare la vita, in un incomprensibile crescendo d’esaltazione simbolica e retorica: realismo e verismo avrebber fatto magari cantare ai due il rimpianto dell’amore non nato, soffocato sul nascere dal fango e dalla protervia umana. Cantano essi invece – e a pieni polmoni e con certezza d’indiscusso sentire – la bellezza della morte che li libera finalmente! No, non son per nulla reali, i personaggi del dramma, solo maschere dietro cui si nascondono le diverse intenzioni degli autori che ne muovono i fili, a confessati e inconfessati fini.

‎Andrea Chénier‬ ph Francesco Squeglia

Così chiunque si cimenti con la messa in scena dell’Andrea Chénier deve necessariamente tener conto di tutti questi sottotesti, di tutte queste intenzioni, dichiarate e palesi ovvero sommesse e ignare: e se la mise en scene che è arrivata a Napoli, al nostro San Carlo, è così fortunata e longeva, lo è proprio, probabilmente, perché riesce a cogliere tutte queste componenti del dramma di Illica e Giordano: l’allestimento, per la regia di Lamberto Puggelli (ripresa da Salvo Piro), le scene di Paolo Bregni e i costumi di Luisa Spinatelli, nasce infatti nel lontano 1985 alla Scala, protagonisti Carreras, Marton e Cappuccilli e diretta da Chailly; solo successivamente verrà acquistato dal Regio di Torino, di cui è attualmente proprietà. La sua lunga vita (trent’anni non son pochi) testimonia la grande qualità ed equilibrio con cui è stata pensata, nascondendo dietro una messa in scena apparentemente del tutto tradizionale (sì d’apparir palatabile ai melomani, notori conservatori) notevoli simbolismi e traslati e tropi. D’altra parte, come ben sa chiunque frequenti non occasionalmente le sale teatrali, non esistono le regie “tradizionali” e quelle “d’avanguardia”, ma solo quelle intelligenti e quelle banali, appartenendo senz’altro questa al primo gruppo.

Le soluzioni sceniche su cui s’impernia la regia sono essenzialmente due: la prima è una sorta di ponte o passerella sul fondo della scena; assente solo nel primo atto, consente di dilatare enormemente lo spazio scenico offrendo una notevole profondità e sottolinea soprattutto le notazioni d’ambiente storico dell’opera, riferite in particolare alla rivoluzione. Così, nel second’atto diventa il ponte Perronet, su cui passano prima Incroyables e Merveilleuses e successivamente i personaggi storici della Rivoluzione, Tallien, Fouché, Carnot, fino a Robespierre; nel terz’atto, tripartita da enormi finestre, accoglie, nella prima parte, scene della rivoluzione, bandiere e giovani che dan sostanza di carne e sangue ai sacrifici umani offerti al dio della guerra e dell’intolleranza, nella seconda, durante il processo, ospita i più accaniti sanculotti e giacobini; nell’ultimo atto viene prima attraversata in tutta la sua interezza dal sanculotto Mathieu, usignolo della rivoluzione, che canticchia la Marsigliese nel glaciale silenzio della notte, poi, alle prime luci dell’alba, è la sosta del simbolo finale dell’opera, il famigerato carro che trasporta i condannati alla ghigliottina, in attesa dei protagonisti e della morte.

La seconda soluzione registica è rappresentata da enormi quinte mobili che si muovono sulla scena spinte a braccia da figuranti: esse rappresentano, sul davanti, facciate di grigi palazzi, con porte praticabili e finestre vuote, mentre sul dietro le facciate si rivelano sostenute da lunghi e possenti travi a mo’ di puntello, come si fa con gli edifici pericolanti a rinforzarne la scarsa stabilità: metafora del potere, dunque, quelle grigie parvenze dalle occhiaie incavate e vane, apparentemente solide e possenti, in realtà instabili e deboli, sorta d’insaziabile Moloch che scruta e osserva gli uomini per prender possesso dell’anime loro, e che di quel dominio vive e trova scopo e fine, come farà con gli ignari parrucconi del primo atto, con la folla preda dei demagoghi di turno del secondo, con l’idealista Gérard, servo del potere guastato dall’esercizio dello stesso. Per tutto il primo atto queste quinte mobili resteranno immote a scrutare i minuetti, le gavotte, le inutili chiacchiere salottiere, solo alla fine si muoveranno, nell’ultima scena, spostate a mano da un popolo in cammino nella notte sotto una tempesta di neve, segno d’un equilibrio secolare di potere che finalmente e necessariamente si modifichi col mutar del vento; le ritroveremo, in parte al rovescio, nel secondo atto, ora altare della rivoluzione ora vicoli stretti entro cui trovano ricetto, nascondendosi nelle zone d’ombra, le spie del potere; nel terz’atto costituiranno le pareti dello studio di Gérard, prima, e poi del Tribunale del Popolo, testimoni e custodi, in entrambi i casi, del potere cieco che ha smarrito il senso suo; nell’ultimo atto accolgono sotto le travi la buia prigione di Chénier, fino a – finalmente – scomparire del tutto, nell’alba della morte e della libertà: solo la morte, e una morte liberamente scelta, evidentemente, sottrae l’uomo all’oppressione del potere.

‎Andrea Chénier‬ ph Francesco Squeglia

Il cast, nella serata da me seguita, prevedeva Sung Kyu Park nella parte del titolo: piuttosto esitante l’Improvviso del tenore coreano, evidentemente emozionato; in effetti per tutte le parti principali il primo atto è stato piuttosto sottotono, per poi proseguire in crescendo. La voce di Sung Kyu Park è dotata di bel colore, notevole timbro chiaro e dizione perfetta, per cui ne vien fuori un Andrea Chénier tutto sommato sufficiente, benché tenda a cantare a squarciagola – ma un po’ appartiene al personaggio – e con apparentemente scarsa partecipazione emotiva; inoltre gigioneggia un po’ e dovrebbe esser meglio guidato nel muoversi in scena. Anna Pirozzi (di recente apprezzata nel Trovatore qui al San Carlo) si conferma soprano dal timbro vellutato e dalle multiformi sfumature che restituisce una Maddalena semplice e forte quale dev’essere il personaggio; molto applaudita dal pubblico la sua interpretazione de La mamma morta. Molti applausi anche per il baritono Gabriele Viviani, che canta Nemico della patria con ottima intonazione, fraseggio elegante, apprezzabile volume; da segnalare anche le notevoli doti attoriali di Viviani, che evidentemente spiccavano nella generale carenza degli altri interpreti, poco guidati in questo, con atteggiamenti ed espressioni che andavano da una goffa ed esagerata esaltazione del gesto scenico alla completa immobilità al centro del palcoscenico.

L’ultimo commento non può che essere per il gran direttore Nello Santi, a consacrazione di una carriera lunga e luminosa di cui Andrea Chénier costituisce uno dei punti di forza, come testimoniano le registrazioni dai più importanti teatri del mondo e con gli interpreti più prestigiosi. La prima rappresentazione di quest’allestimento è stata dedicata alla memoria di Claudio Abbado, nell’anniversario della morte; in una intervista vista di recente, Abbado diceva dell’importanza, per un direttore, di dirigere a memoria, per poter guardare l’orchestra e gli orchestrali: si diceva tanto più felice, lui, quanti più occhi incontrava dirigendo, segno evidente del conoscere la partitura a memoria anche da parte degli altri musicisti. Nello Santi dirige – ha diretto ieri sera – a memoria; non so quanti occhi abbia incrociato il suo sguardo, so per certo che noi che eravamo in platea abbiam fatto una nuova esperienza della musica di Umberto Giordano, segno evidente di come la musica possa rinascere ogni volta perfettamente nuova all’esecuzione, come fosse composta espressamente per l’occasione: e questo è il dono che sanno farci solo gli esecutori eccelsi.

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