L’oscura e appassionata macchina da guerra del Trovatore

[rating=3] Mancava da una decina d’anni, Il trovatore, dal nostro San Carlo: torna per aprire una stagione che presenta alcune novità d’allestimento – questa, appunto, la principale – e alcune riprese, significative chi più chi meno, risalenti ad un passato lontano o recente – in almeno un caso, recentissimo – di cui tanto avremo modo di parlar prossimamente; torna Trovatore e già prima – preventivamente, cautelativamente, presuntivamente – qualche voce autorevole a rimpianger si ritrova i bei giorni antichi della Barbieri e di Corelli – divi sostenuti da calcistiche e prezzolate claque – a fronte di supposti grami tempi moderni, con poco divi interpreti dai nomi che risuonano un po’ alieni, zeppi come son di K e W, come fosse disonore esser stranieri, come non fosse invece privilegio sommo l’apprezzamento del mondo tutto e il fascino ch’ovunque suscita l’italico bel canto; torna Trovatore a proporre il mistero suo, inviolato ancora ai giorni nostri: di come possa un’opera – anzi archetipo d’opera, secondo i più – compier puntuale la potente arte sua di trascinarci fuor dalla platea e dai palchi dove placidi sediamo, per proiettarci – idealmente, spiritualmente, animosamente – su quella scena a gridar insieme a Manrico all’armi, e ci riesca, quest’opera, pur col carico suo pesante di modesti versi d’un povero poeta di teatro napoletano, di rozza musica sbozzata colla roncola dal Maestro non ancora alle boitiane finezze convertito, di scontate e aggrovigliate e improbabilissime vicende degne del peggior teatro popolare dai più triti e intristiti luoghi comuni drammaturgici del secolo che fu: e non ti spieghi – nessuno se lo spiega – perché questa mistura, sì ignobil sulla carta, miracolosa e stupefacente e appassionante risulti poi sull’assito del palcoscenico e degna di tanto e tanto impetuoso amore da chi l’abbia vista in teatro almeno una volta, tanto da far dire a Gavazzeni che Trovatore rappresenta per la cultura italiana (non solo musicale) ciò che La passione secondo Matteo è per la tedesca.

Quest’autentico totem abbiam visto dunque in scena il 13 dicembre, in un allestimento che, sia dal lato musicale – l’addio, almeno temporaneo, del Maestro Luisotti al “suo teatro”, la presenza di buoni nomi nel cast sia primo che secondo – e dal lato drammaturgico – il regista Znaniecki che tanta buona prova di sé aveva dato con uno dei gioielli della passata stagione, quell’Onegin ch’aveva tutti entusiasmato e il suo scenografo di fiducia, Scoglio, che sempre in quell’opera russa aveva dato ottima prova delle sue capacità, il contributo delle videoproiezioni di Michal Rovner – molto prometteva: cerchiamo di capire quanto di quelle promesse e quelle aspettative sian poi risultate mantenute.

Trovatore - regia Michal Znaniecki

La regia ha il suo punto di maggior forza nella stessa idea fondante della rappresentazione: bellicosa e cupa quanto basta, traslata nell’astorico tempo d’una guerra civile e fratricida che si suppone lunga ed estenuata dalla consunzione dei metalli, delle divise, dalla sfibrata acredine degl’animi. E se l’azzurro della fazione del Conte di Luna colora l’abito di Leonora nella prima parte, quand’ella è ancora dama della regina, sarà un vestito verde – che distingue l’avverso partito – ch’ella indosserà a Castellor, apprestandosi alle nozze con Manrico: la questione degli abiti di Leonora è importante, o almeno la regia assegna a questo particolare un ruolo importante e ci ritornerò fra poco. Per ora basti notare la cura dei particolari in ogni scena, dominata dalla presenza del fuoco e del buio, dalla contrapposizione – soprattutto – tra i due: questo costituisce un po’ leitmotiv dell’intera rappresentazione, che si apre con la torcia di Ferrando al centro di una formazione di bandiere – quasi un altare – circondato dagli assonnati uomini del Conte; e fuoco al centro del palcoscenico è anche nella riuscita scena dell’accampamento zingaro sui monti di Biscaglia. Ancora, belle le scene di Scoglio che propongono sul fondo del palazzo d’Aliaferia un motivo a doghe verticali che poi diventa in parte canne d’organo nella scena del Convento, foresta forse di faggi cui fa riferimento il Conte fuori dal Convento vicino Castellor, forse trascolorato cenno alla prigionia delle passioni; pieno di significato anche il profilo di rocce in primo piano, omaggio dell’era tecnologica ai vecchi fondali dipinti di cui Trovatore è indiscusso campione, nella genericità prototipica dei luoghi dell’azione: la reggia, la torre, la rupe, il convento. Le videoproiezioni dell’arte della Rovner aggiungono poi un surplus all’inconsolata idea di guerra: mondi desolati (Deserto sulla terra…) in cui si muovono lunghe teorie d’uomini in fila indiana, all’ombra triste di longilinei cipressi leggermente agitati dalla brezza; e la calma abbandonica di quei fusi arborei fa presto a trasformarsi in lingue di fuoco che circondano inquietanti mitologiche figure fantasmatiche, elementi primordiali del dramma d’Azucena: la pira, il supplizio, la vendetta, l’abbandono, la morte.

Trovatore - regia Michal Znaniecki

Ma c’è altro, nella pur accorta regia di Znaniecki che poco convince: la più importante, e più grave, è quella che possiamo definire prolissità, intesa come ridondanza, coazione a ripeter il concetto già espresso dal dialogo, dalla musica, dal gesto; è un vizio che ammorba purtroppo molte diverse regie moderne, e che dipende dall’ansia registica di dover illustrare ciò che già trova sufficiente spiegazione. Znaniecki sciaguratamente abbonda in questo, e se talvolta fa bene, talaltra rischia di combinar qualche lieve pasticcio. Così, è un Manrico affranto e spossato quello che quasi moribondo, sorretto da due compagni, entra a sorpresa in scena nell’accampamento zingaro – letteralmente non si regge in piedi –   a inutilmente sottolinear ferite e difficile convalescenza, rese poco dopo del tutto obsolete dal saltar su come un grillo e suonar corni e brandir brandi; e il cambiarsi in scena di Leonora con l’abito nero del ravvolgersi nell’oscurissima notte del Miserere, a confermar forse il verso di Cammarano, stride però in contrasto colla musica del Maestro, che la vuole invece idealmente ravvolta accanto a Manrico (famoso e acclarato caso di come tanto spesso Verdi piegasse i poveri versi che la sorte in dote gli forniva, secondo ben diverso metro dell’arte sua, e di come ottimi registi d’opera si lascin poi fuorviar dal testo senz’ascoltar la musica); e poco più tardi non basterà a Leonora prometter se stessa all’avido conte, tanto che si troverà a render più allettante il patto scoprendo il corpo e l’anima con volgarotto gratuito gesto gettando all’ortiche l’abito nero di cui poco prima s’era riverstita, appunto, in scena. E poi le coreografie. Passi per il ballo tzigano al campo zingaro – aggiunge solo soverchio colore; passino persino le inquietanti braccia che bramano ghermir nella notte illune l’incolpevole Ines – forse espressione del suo turbamento (Quanto narrasti di turbamento m’ha piena l’alma…); ma non credevo veder mai monache danzanti fuorché in un musical, e così pur valga per i boys conciati da apache parigini che svolazzano qua e là fino a trascinar in un giro di valzer – il valzer della vecchia strega – durante l’interrogatorio l’attonita Azucena che certo in quel momento – pur essendo zingara – ben poco credo avesse in animo ballare. Particolari, certo, per carità, che però – è solo mia opinione – hanno un po’ fuorviato e appesantito una regia per altri versi, come detto, più che sufficiente.

Nicola Luisotti sceglie per il suo Trovatore – e per l’addio al suo teatro – un ritmo rapido, a tratti incalzante, sommamente energico, dalle coloriture fortemente espressive che a volte sfociano addirittura in toni popolari e quasi veristi, che si riverberano un po’ su tutti i personaggi, in particolare sulle voci “scure”, Azucena e il Conte di Luna, lasciando i toni elegiaci ed eroici rispettivamente a Leonora e Manrico. Scelta più che legittima, che, visto il più che buon livello del cast, trasforma la performance in una vera e propria determinata e risoluta macchina da guerra: questo Trovatore va via diretto e veloce come un treno fino all’inevitabile conclusione. Anna Pirozzi è credibile Leonora: il timbro ha leggerezza vellutata un po’ meno limpida sui toni gravi, ma di gran dolcezza sui piano e d’ottima agilità anche sui tempi rapidi del direttore; grande generosità ha mostrato il Manrico di Alfred Kim che possiede buona musicalità, bel colore e trascinante passionalità; molto buono anche il Conte di Luna interpretato da George Petean, che canta la seconda parte pur colpito da lieve indisposizione: bel timbro autorevole e capace di grandi sfumature; Enkelejda Shkosa è un vero mezzosoprano, dalla scura voce molto espressiva, che disegna un’Azucena validissima anche drammaturgicamente.

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