
[rating=3] Regge bene agli insulti del tempo, l’agile e proteiforme gazebo liberty di vetro e ghisa creato dalla fertile fantasia di Nicola Rubertelli, un quarto di secolo fa, per la messa in scena del Don Pasquale proprio qui a Napoli: l’etereo gingillo è stato più volte riutilizzato in questi anni, e ritorna in questo sereno fine settembre al San Carlo per una felice rimpatriata del capolavoro di Donizetti, che pure ha la sua bella età, vista la prima del 3 gennaio 1843; e tuttavia sempre frizzante e giovane, come sottolinea la regia jugendstil di Roberto De Simone, che ne trasporta la narrazione ai primi anni del Novecento – a proposito, quanti allestimenti, ultimamente, ambientati in piena bella époque, e non è finita! – volendo sottolineare la vicinanza ideale di questa Opéra bouffe con l’operetta del cambio di secolo, quella degli Offenbach e degli Hervé. Assonanze suggestive, certo, in linea probabilmente con gli intenti del compositore che, anche a legger recenti studi – come quello di Gerardo Guccini – si proponeva, col Don Pasquale, vincere l’enorme sfida di riscatto del passato dell’opera buffa: soffiava allora l’impetuoso vento nuovo del romanticismo che spazzava via ogni possibilità di rappresentazione del glorioso genere dei Cimarosa e dei Paisiello se non nei teatri minori di provincia; era nato, anzi, accanto al melodramma “serio”, grondante lacrime e sangue, un nuovo genere, la cosiddetta opera semiseria, più confacente all’ormai imperante sentir comune, che offriva momenti lirici di grande pathos in un quadro d’insieme sentimentale a lieto fine: Donizetti stesso aveva contribuito al successo del nuovo genere con l’assoluto capolavoro dell’Elisir d’amore.
Ora però, scomparso Bellini, rivale d’una vita, il compositore bergamasco vide forse la possibilità di legare per sempre il suo nome non tanto, si badi, ad una impossibile reinassance d’un genere di cui già, probabilmente, Rossini sembrava estremo rianimatore e interprete, quanto piuttosto ad una conciliazione tra apparentemente opposti e divergenti segni e sentimenti: (ri)prese dunque il vecchio e ben conosciuto meccanismo di tipica opera buffa del Ser Marcantonio di Anelli e Pavesi, sfrondò personaggi e situazioni, trasportò all’oggi la vicenda – come certi inopportuni e improvvidi, a sentir certi melomani, registi d’opera moderni – , non più tra parrucche e crinoline, infuse il soffio dell’anima e della vita reale a quei personaggi prima solo maschere simboli e archetipi, condendo il tutto con musica elegante come non mai e il gioco è fatto: il capolavoro è servito.
Intendiamoci, però: in tal modo, se è vero che Don Pasquale resta l’unica opera buffa ancora in repertorio dal 1817 della Cenerentola al 1893 dell’ultima trasfigurata incarnazione di tal genere nel Falstaff; appare ovvio tuttavia che quest’opera, nata cogl’intenti che abbiamo detto e nella descritta temperie culturale, non era – non poteva esser più – Cimarosa e nemmeno Rossini: altra cosa, diversa e men grossolana sensibilità del buffo, dissimile sguardo sulle umane vicende, era quel di Donizetti (e la storia ci dice appartener quella mano proprio a lui, più che al Ruffini, che infatti ne disconobbe ogni paternità), sì da far parlare d’umorismo, più che di comicità, di sentimento del contrario piuttosto che d’avvertimento del contrario, direbbe Pirandello a questo punto, cosicché l’emblematico schiaffo di Norina riassumendo ed esplicitando il cambio dell’epoche e il fluire del tempo, capovolge il punto di vista, non provocando più risata ma riflessione nello spettatore che, oggi come ieri, siede in platea: così, pure ieri sera, al sonoro ceffone parton due risatine che si smorzano subito perché la musica – letteralmente e metaforicamente – cambia, e se il panzuto vecchio poteva rassomigliare al Bartolo nel comun tributo al demone meridiano, e se in Norina un qualche residuo del capriccio di Rosina pur fino allora potevi scorgere, da qui t’accorgi di quanto tempo invece sia passato, quanto moderno sentire ci sia in quella prima sconosciuta consapevolezza loro, nelle antiche maschere d’un tratto diventate carne e sangue: benvenuti all’alba della modernità. L’allestimento di De Simone, ripreso da Ivo Guerra, ben riflette dunque questo trascorrer del tempo, questa diversa e più moderna sensibilità del Don Pasquale, coglie un ulteriore e cruciale momento di metamorfosi del sentir comune, come fu quello dell’aurora del secolo breve, rende più visibile, vivibile e intellegibile la musica a noi contemporanei: il che, guarda il caso, è proprio principale, se non unico, compito della regia.
L’esperta mano di Christopher Franklin dirige con grande concentrazione e, insieme, leggerezza e freschezza, l’Orchestra del Teatro, in cerca non affannosa di piene sonorità che spesso (ri)trova; sicuramente coglie il ritmo e la cadenza giusta, quel trastullarsi ironico che è un po’ il sigillo, il marchio di fabbrica del compositore bergamasco, e che non a tutti è dato, in verità, intuire ed eseguire. L’orchestra donizettiana canta sempre un’altra storia, rispetto al libretto, più ironica, ma anche migliore e più giusta, che è sempre bella scoperta inseguire quando chi l’esegue l’abbia compresa, ne abbia quantomeno dato un senso e un’interpretazione: l’esperienza mozartiana del Direttore si rivela di grande utilità, evidentemente, rifuggendo qualsiasi manierismo e affettazione, rendendo appieno l’eleganza propria della partitura. Il coro, diretto da Marco Faelli, non ha gran parti in quest’opera e qui ci è parso forse sacrificato un tantino più del dovuto, costretto com’è stato in condominio nel golfo mistico insieme coi padroni di casa: se abbiam capito i motivi “scenici” che han portato alla decisione, li comprendiamo e condividiamo, pur dolendoci d’una scelta un po’ penalizzante; in tal modo il valzerino del Nipotino guastamestieri perde gran parte dell’efficacia scenica che dovrebbe avere e conserva solo intatta l’innata piacevolezza musicale.
Che dire di Paolo Bordogna, se non che il suo don Pasquale non appar certo il vecchio panzuto che spesso siamo abituati a vedere, canuto e bianco, in vestaglia e cornetta: bianco lo è, certo, posticciamente panzuto, anche, ma nonostante certi tratti farseschi e guitteschi che il personaggio conserva, ne vien fuori invece, nel complesso, un distinto signore cui l’età aggiunge fascino e malia e sollecita, da parte nostra, una punta d’umana comprensione in certa fragilità accennata nelle posture, accentuati tremiti e ansiogene movenze, piuttosto che artrosi e lardosa e oziosa pinguedine; la voce non sconfessa l’interpretazione dell’attore, anzi il cantante s’allea con questi nel conferire stile, chiarezza di dizione, precisione ritmica e grazia ad un personaggio ch’è sì comico, ma che deve pur suscitare in tal modo nel pubblico emozione, turbamento, contraddizione del pensiero, così da far sembrare del tutto gratuito l’insulto dell’implacabile Sofronia che inesorabilmente lo relega nella categoria dei vecchi decrepiti e pesanti, buoni sol per la risata. Norina e Sofronia son le due facce del soprano, Barbara Bargnesi in stato di grazia, che disegna con arte consumata, che diresti appartenere ad artista ben più matura, le movenze lignee e imbranate della zitella del secondo atto e le frizzanti e autoritarie cadenze della signora del terzo – schiaffo compreso –, insieme con la sognatrice romantica ma non troppo del primo e l’innamorata vedovella del finale ultimo: quanti personaggi è in realtà Norina, e quanti son “autentici” e quanti invece “interpretazioni”, sottolineati anche dai bellissimi e significativi costumi di Zaira De Vincentiis? Anche musicalmente la voce di soprano leggero della giovane interprete sa essere persuasiva sia nella spregiudicatezza sia nella tenerezza, ricevendo convinti applausi per lo struggimento e il coinvolgimento di Quel guardo il cavaliere seguito dall’immediato prender le distanze di So anch’io la virtù magica, simbolo stesso, nella duplicità d’emozioni che suscita, della complessità – che non diresti – di un personaggio non facile, per questo, da rendere in ogni sua sfumatura.
La voce di Antonino Siragusa, impeccabile Ernesto dalle romantiche screziature, si leva sicura e precisa snocciolando con apparente semplicità gli acuti e le coloriture che il personaggio richiede: il tenore siciliano, già elegante ed espressivo Almaviva di tante serate, riesce a far tesoro della grande esperienza rossiniana e trasfonder qui, nella rinnovata concezione donizettiana, un distillato d’espressività, eleganza e perizia tecnica non comuni, sì da rendere a perfezione l’ispirata malinconia di Sogno soave e casto, il dolore trattenuto e orgoglioso di Cercherò lontana terra, il trasporto notturno e vago di Com’è gentil, la tenerezza carezzevole di Tornami a dir che m’ami. Mario Cassi dona bella voce e perfetta lettura al dottor Malatesta, che a ben guardare altri non è che estremo camuffarsi del borghese emergente che tutto sa e fa: ulteriore prova, la narrazione anche di questo personaggio, d’altri e più attuali tempi in cui il “fare” borghese, il Figaro rampante e prorompente s’è ormai spento, rimpicciolito e ridotto a domestica dimensione, il cui estro creativo si limita a riprodurre la figura femminile perfetta secondo la visione maschilista: Bella siccome un angelo che improvvisamente emerge dal dialogo con don Pasquale è l’unica aria – se pur si possa chiamar così – per il personaggio, che invece vive, (ma il discorso vale un po’ per tutti) soprattutto di duetti e scene d’insieme: il bellissimo timbro del baritono risalta infatti sia nello smagliante duetto con Norina, sia nel vortice di quello con il protagonista, segnalandosi per chiarezza di dizione e precisione ritmica. Da evidenziare, infine, la precisa caratterizzazione di Rosario Natale, nei panni del (fasullo) Notaio dalla caricaturale e grottesca precisione.