Il gioco delle tre carte de La Dama di picche

Inaugurazione della Stagione 2019-20 al Teatro San Carlo di Napoli con "La Dama di picche - Pikovaya Dama" di Pëtr Il'ič Čajkovskij, diretta da Juraj Valčuha, regia di Willy Decker

L’espressione tra il minaccioso e lo spaventato, l’angosciato e lo stupefatto, l’Autoritratto di Courbet – o del Disperato – giganteggia sul fondo del palcoscenico, mostrando solo gli occhi enormi, sgranati e vivi, mentre il protagonista Herman, spalle al pubblico, lo guarda e immaginiamo voglia rispecchiarsi in quelle emozioni così vive e scoperte, sulle note dell’Introduzione eseguita dall’Orchestra. Perché La Dama di picche, rappresentata in questi giorni a Napoli, ad inaugurare la nuova Stagione del Teatro San Carlo altro non è che perfetto rispecchiarsi dell’esasperazione delle passioni che dividono l’animo del protagonista così come dell’Autore: si è scelto di proporre, invece di una nuova produzione propria, come di solito avviene per la Prima di Stagione, una famosa messa in scena dello Staatsoper Hamburg che porta la firma di quel genio del teatro contemporaneo di Willy Decker, che il pubblico napoletano aveva già conosciuto l’anno scorso per una Kát’a Kabanová di grande spessore e, come sempre, di impetuoso e forte impatto visivo.

Scelta rischiosa, certo, ma che ha assicurato al pubblico partenopeo la visione di un allestimento sicuramente di prim’ordine, per un’opera che appartiene al Čajkovskij ormai maturo che attinge, ancora una volta, al “suo” Puškin. Dopo l’improvviso, catartico, liberatorio Onegin e dopo Mazeppa, opera in mezzo al guado, per tanti versi sperimentale, Čajkovskij era arrivato a cinquant’anni, il suo successo professionale era ormai pieno sia in patria che all’estero, poteva tranquillamente permettersi di scegliere, e così la proposta di metter in musica Piovaya Dama, da quel racconto di Puškin così sospeso tra cielo e terra e tuttavia così duro e forte, ben dentro il filone più nero e fantastico del romanticismo sorgivo, lo aveva lasciato incerto, se non indifferente. L’idea di mettere in musica la storia di quel giocatore, pubblicata nel 1834, era venuta niente meno che al direttore dei Teatri Imperiali in persona, che aveva incaricato Modest Čajkovskij di tradurre in libretto la vicenda e Nikolaij Klenovski di comporre la musica di quel che avrebbe dovuto essere un grand opéra alla francese, fastosa e ridondante nella sua ambientazione al tempo della Grande Caterina. Čajkovskij si lasciò convincere, alla fine, solo due anni dopo la rinuncia di Klenovski: probabilmente, fu la freddezza incontrata in Russia dalla Bella addormentata ad esser decisiva. Sta di fatto che il balletto andò in scena al Mariinskij di San Pietroburgo il 15 gennaio 1890: presente alla prova generale, l’imperatore si complimentò con un tiepidissimo e stringato «Molto grazioso!».

Offeso – «Sua Maestà mi ha trattato molto sbrigativamente. Dio sia con lui.» – il compositore lasciò subito dopo la Russia portandosi appresso, anche se non ancora del tutto convinto, il libretto del fratello. Fu a Firenze che si persuase, gradualmente, del tutto, lanciandosi subito dopo nell’impresa di scriverne la partitura con foga e onda emotiva impressionanti, obbedendo a quella che lui chiamava “semplicità estrema”, primo ingrediente necessario per comporre un’opera, che “si deve scrivere (esattamente come tutto il resto) così come viene”. Iniziò così a scrivere il 31 gennaio, quindici giorni dopo lo spiacevole episodio del Mariinskij, il 14 marzo, in solo quarantaquattro giorni, terminò la prima stesura, venti giorni furono necessari per la versione completa per pianoforte e circa tre mesi, in tempo per il ritorno in patria, per dare veste strumentale all’opera intera. Un record, ma la verità è che il compositore vide nell’opera, e aveva ragione, da un lato un modo per riaffermare la propria apparenza alla cultura russa più profonda, dall’altro, tuttavia, anche un’occasione per definitivamente certificare il suo internazionalismo stilistico, dualismo felicemente risolto che accomuna Puškin e Čajkovskij, in aperta distinzione, se non conflitto, con la scuola del Gruppo dei Cinque: Piovaya Dama è l’opera in cui più d’ogni altra si riverberano gli studi e le preferenze internazionali del compositore.

Così scrive lui stesso: “Sono consapevole che se non ci fosse stato Wagner avrei scritto diversamente; ammetto anche che nelle mie composizioni operistiche c’è qualcosa che mi deriva dal «possente mucchietto»; è verosimile che anche la musica italiana, che ho amato appassionatamente durante l’infanzia, e Glinka, che ho adorato durante la giovinezza, abbiano avuto una prepotente influenza su di me, per non parlare di Mozart. Ma non ho mai fatto ricorso all’uno o all’altro di questi idoli, bensì ho permesso loro di disporre della mia essenza musicale come volevano”. A queste considerazioni stilistiche e musicalmente così valide – basti vedere l’uso che fa in quest’opera Čajkovskij del leitmotif wagneriano o la certa derivazione dall’amatissima Carmen di talune scene d’insieme – occorre aggiungere anche un altro potente motivo che spinse il compositore: l’ambizione di fare di Piovaya Dama una sorta di stilizzato autoritratto, dolente e tragico, in cui ognuno – similmente a Leonardo nella Gioconda – potesse intravedere le fattezze dell’Autore, i suoi tormenti, le sue irrisolte contraddizioni, il dolore di un’anima prigioniera. Come già Oneghin, così caratterizzato di riferimenti biografici, in maggiore e più sottile misura Herman è figura di Pëtr Il’ič, suoi sono i turbamenti, le sospese antinomie, le oblique e innominate aspirazioni, le scelte ineludibili che lo porteranno al suicidio.

Ed è sempre stupefacente vedere come lo stile stringato, asciutto, privo d’ogni studiata ed affettata enfasi di Puškin possa alla fine esser tradotto, per altra e del tutto più articolata via, attraverso l’effusione emotiva, il riverbero del sentire e la voluta elusività e incerta corrispondenza del mezzo espressivo, allo stesso identico risultato ai sensi e all’anima di chi ascolta e vede. Irrisolto mistero dell’arte. Su questo, certamente, si fonda non solo l’idea scenica di base di Decker ma, di pari passo, pure l’interpretazione che decide di dare alla partitura Juraj Valčuha: profondi conoscitori di questo capolavoro, entrambi, ciascuno per parte sua, sfrondano il lavoro di Čajkovskij da ogni possibile sovraccarico, da ogni gravame che possa, in qualche modo, alterarne lo schietto respiro, l’intimo e più profondo agitarsi dell’emozione al di là dello schermo dell’apparato scenico. Per parte sua la regia lascia che sia la luce, la luce bianca, pura, fredda, a tagliare lo spazio oscuro, a far emergere i personaggi come dal buio primordiale in cui sembravano, fino a poco prima, dormire il sonno dell’eternità, luce che crea e che anima, ma che, simile alla lama di un coltello, recide e seziona, dona insieme vita e morte. Così, anche a costo di alcuni tagli, certo dolorosi, la mano impietosa del regista arriva fin da subito alla materia viva: trasporta la vicenda dalla fine del secolo rococò, epoca d’oro della Grande Caterina, a giusto cent’anni dopo, al tempo tardoromantico in cui fu scritta, che si avvale di costumi e scene che portano la firma di Wolfgang Gussmann, una oscura e opaca Belle Époque senza lucidi splendori e senza illusioni che sente già su di sé, pesantemente, il peso opprimente della fine oscura che inghiottirà tutto quel mondo.

Privi dello schermo rassicurante della bella giornata di primavera al Giardino d’Estate di San Pietroburgo, senza più bambini che giocano a fare i soldati, bambinaie, famigliole felici – tagliata tutta la scena popolare che costituiva il riferimento a Carmen – gli ufficiali, commilitoni di Herman, fin dalla prima scena ci appaiono nella loro più vera ed intima essenza, che prima potevano nascondere sotto la colorata patina di mondanità: dèmoni beffardi e tormentosi, la cui unica funzione è quella di ribadire, ove ce ne fosse bisogno, l’esclusione, l’isolamento, l’assoluto disadattamento di Herman; le due donne protagoniste, Liza e la Contessa, appaiono fin da subito fantasmi evanescenti che promettono entrambe, ognuna in diverso modo, la possibilità di un riscatto, ma, pure, troppo definitamente legate ad un mondo alieno e ad un altrove che non prevede e non ammette intrusioni, l’una, la dama di picche, legata ad un irripetibile e fantasioso passato, l’altra, Liza, ad una fantasmatica e infantile alienazione del desiderio che si consuma al di là e al di sopra d’ogni realtà possibile; al centro Herman, eternamente in bilico nella sua condizione – tanto simile a quella dell’Autore – dell’acuito desiderio continuamente frustrato, della sensibilità costretta alla perpetua mistificazione e al nascondimento, della povertà – o della diversità – escludente e biasimevole che lo porta all’emarginazione, che gli fa intravvedere, alla fine, nel mettersi in gioco, nell’azzardare la propria vita – unico bene posseduto – la propria possibilità di riscatto.

Se non dovesse riuscire, se il gioco delle tre carte dovesse malauguratamente andar male, non resterebbe che la morte, Herman lo sa, lo sa anche Čajkovskij, che scrive una partitura che disperatamente cerca di celare la vera posta in gioco, infarcendola di deviazioni, parentesi, false piste per ingannare l’orecchio, l’occhio e il cuore, soprattutto appesantendola di volute, scoperte, dichiarate citazioni, così abbondanti da far quasi pensare, ante litteram, ad una produzione postmoderna, anche per la maniera decisamente e sapientemente ironica con cui tratta la materia. Solo un musicista accorto e profondo come Valčuha può riuscire ad aiutarci ad uscire indenni dal vero e proprio labirinto creato dall’Autore, ad eludere l’infinito riverbero del gioco di specchi che, a bella posta, Čajkovskij genera per confondere, addolcire, nascondere: grazie alla mano ferma del direttore è possibile anche per noi distinguere la verità dagli inganni, le sirene ammaliatrici dalla sincera emozione, riuscendo a rendere perfettamente il non detto, l’eco del pensiero che spesso contraddice il gesto e la parola, l’effusività del flusso di coscienza che si aggancia miracolosamente ad una infinita e sapientissima declinazione dei leitmotifs, che si modificano, si adattano, continuamente si rigenerano in un incessante e splendido divenire, fino a trasformare l’intera partitura in una lunga e tragica Trauermarsch che trova il suo centro e il suo culmine nel ballo in maschera, che – impietosamente tagliata la Danza di pastori e pastorale, delizioso e sentito omaggio al rococò mozartiano, ma anch’esso geniale trompe-l’œil del supremo e abilissimo inganno – mostra la sua autentica natura di vera e propria danse macabre che trova il suo senso ultimo nella metamorfosi estrema della Grande Caterina che si rivela essere la morte in persona, e che toglie definitivamente l’opera da ogni ipoteca che poteva impropriamente indirizzarci al grand opéra.

Decisivi, com’è ovvio, in tutto questo, perché la messa in scena sia sostenibile e credibile, orchestra e coro: ebbene, crediamo che, sia l’una che l’altro, abbiano dato in questa occasione una prova di grandissima professionalità ed eccezionale caratura artistica, non una stonatura o una nota fuori posto, rasentando l’assoluta perfezione, anche, per quanto riguarda il Coro diretto da Gea Garatti Ansini, nell’ostica lingua russa certo non familiare qui sulle sponde del Mediterraneo. Anche il cast è stato pienamente all’altezza, a cominciare dai due protagonisti, Oleg Dolgov che impersona un Herman fremente e prezioso, giocato sia sulla forza dell’emissione, sia sulle sottigliezze psicologiche, dosando a perfezione lo squillo e il tratto eroico, riuscendo alla fine a risultare corretto e convincente, come pure la trasognata e dolce Liza di Zoya Tsererina, voce che sa sussurrare e abbandonarsi a toni di appassionato lirismo o esaltarsi nella scoperta dell’amor suo disperato e interdetto fino alle estreme conseguenze, attrice dalla notevole presenza scenica e dal gesto sempre misurato e appropriato.

Spicca, tra i comprimari, la notevole interpretazione d’una Contessa inacidita dagli anni e dalle esperienze e perfettamente incarnata nella voce di Julia Gertseva, mentre il conte Tomskij ha le fattezze di un pressoché perfetto Tomas Tomasson, perfetto contraltare baritonale del protagonista. Applausi a scena aperta ottiene Maksim Aniskin con la sua Ya va lyublyu, così come merita menzione anche la sognante Podrugi mille, cantata da Aigul Akhmetchina, dolcissima Polina, sulle parole di una poesia di Batjuškov, poeta che tanta importanza rivestì nella formazione di Puškin: ennesima ironica, geniale, illusoria cortina di specchi, nel reiterato gioco delle tre carte della Dama di picche.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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il-gioco-delle-tre-carte-de-la-dama-di-piccheLa Dama di Picche - Pikovaya Dama <br>Piotr I. Tchaikovsky <br>Opera in tre atti su libretto di Modest Il’c Tchaikovsky dal racconto omonimo di Aleksandr S. Puškin <br> <br>Direttore, Juraj Valčuha <br>Regia, Willy Decker <br>Assistente alla Regia, Stefan Heinrichs <br>Scene e Costumi, Wolfgang Gussmann <br>Assistente ai costumi, Sara Berto <br>Luci, Hans Toelstede riprese da Wolfgang Schünemann <br>Vocal coach, Nino Pavlenichvili <br> <br>Herman, Oleg Dolgov <br>Il conte Tomskij, Tomas Tomasson <br>Il principe Eleckij, Maksim Aniskin <br>Liza, Zoya Tsererina <br>Polina, Aigul Akhmetchina <br>La contessa, Julia Gertseva <br>Čekalinskij, Alexander Kravets <br>Surin, Alexander Teliga <br>La governante, Anna Viktorova <br>Maša, Sofia Tumanyan <br>Čaplickij/Il cerimoniere, Gianluca Sorrentino <br>Narumov, Seung Pil Choi <br> <br>Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br>Produzione Staatsoper Hamburg <br>Spettacolo in Russo con sovratitoli in Italiano e in Inglese <br>Durata: 3 ore circa con intervallo <br>In scena dal 11 al 15 dicembre 2019 <br>Napoli Teatro San Carlo, 14 dicembre 2019