Evgenij Onegin, splendente avanguardia della storia

Al Teatro Petruzzelli di Bari "Evgenij Onegin" di Čajkovskij in una produzione dell'Helikon Opera Moscow diretta da Valery Kiryanov per la regia di Dimitry Bertman, dall’originale storico di Konstantin Stanislavsky

La cosa che più sorprende, ad una prima superficiale lettura di questo allestimento bello e sapiente che sa d’autunno “freddo e secco come la terra”, d’insonnie e d’ansie malinconiche e vitali, dell’Evgenij Onegin di Čajkovskij che in questi giorni va in scena qui al Teatro Petruzzelli di Bari, è il salto temporale che separa l’ultimo atto dal resto dello spettacolo: mentre, infatti, la maggior parte della storia è ambientata, come rigorosamente da libretto, in un protoromantico 1820 di ineffabili e struggenti fantasie amorose, amicizie sacrificate sull’altare dell’amore e su indicibili, imperscrutabili fraintendimenti, la terza parte ci trasporta d’emblée giusto cent’anni dopo, negli anni venti ruggenti e incoscienti, delle distruttive e destrutturanti avanguardie del secolo che sarà poi detto breve, in virtù, probabilmente, della sconcertante rapidità con cui ha divorato uomini, cose, pensieri.

La scelta di Dimitry Bertman – talentuoso regista che firma lo spettacolo, produzione dell’Helicon-Opera di Mosca e portato in giro per il mondo con enorme successo – si può leggere in tanti modi, certo riflette l’improvviso straniamento del ritorno del protagonista in patria, e noi rimaniamo come lui attoniti per il salto spaziotemporale, nel bel mezzo del frastornante carosello di coppie che ci ballano intorno, stupiti di come il mondo ambisca mutar nelle forme e nei modi, per restar poi, sostanzialmente e desolatamente, uguale sempre e solo a se stesso.

E tuttavia, se l’effetto psicologico – in quest’opera che è, poi, così potentemente debitrice alle assonanze e ai cortocircuiti autobiografici nel passaggio da Puškin a Čajkovskij – è essenziale e determinante, non meno importanti sono i riferimenti storici che questo allestimento, fin dalla sua progettazione, porta con sé, scopertamente, programmaticamente, in quel suo definirsi derivato e ripensato “dall’originale storico di Konstantin Stanislavsky”. L’inventore del metodo omonimo, uno dei fondatori e padri del teatro contemporaneo, non solo russo, partì proprio dalla regia dell’Onegin cajkovskiano per mettere in pratica le sue teorie nel campo del teatro d’opera, la sala in cui lavorò per quella messa in scena nel 1922 è ancor oggi conservata a Mosca come Sala Onegin nel Museo della Casa Stanislavskij.

Non è certo un caso che in quella sala, dove leggenda vuole che il gran Maestro si sia fermato proprio perché ispirato dall’opera di Čajkovskij, ci siano tuttora quattro colonne, le stesse che vediamo, riprodotte dallo scenografo Viachelav Okunev, costituire il cuore, l’anima stessa della scena dello spettacolo barese: quelle colonne ioniche, che son diventate quasi firma del teatro stanislavskiano, inconfondibile logo, qui le vediamo assolvere la loro funzione fondamentale, quella di servir da fondale al portico di casa dei Larin, al giardino profumato di terra e lavoro, e poi sala della festa che fa da silenzioso testimone al frangersi dell’amicizia tra l’umbratile Onegin e il buon Lenskijj a causa della leggerezza della maggiore delle Larine, Ol’ga, così amata dal cuor di poeta di Lenskijj, e ancora diventar stralunato paesaggio fuori mano per il duello all’alba e la morte gelida e solitaria di Lenskijj, farsi casa sfarzosa ed elegante del principe Gremin e della piccola Tat’jana, ormai sofisticata, irraggiungibile principessa Gremina.

Soprattutto, vediamo quello spazio protetto dalle colonne – terra franca dove il tempo e lo spazio altro non rivelano esser che irriguardose e miserrime invenzioni degli uomini per ingannar la morte – farsi camera da letto di Tat’jana, dove la ragazzina si muove sulla scena e canta i turbamenti del suo primo scoprirsi innamorata, sotto una gelida oscurità che è ombra e buio e assenza, ma in cui le frasi, i pensieri, le emozioni che fanno unica una  notte come quella s’accavallano, si rincorrono, s’accartocciano e infine trovano compiutezza e pace nella lettera che Tat’jana scrive a Colui – nemmeno riesce a dirne il nome, neanche più tardi, quando incaricherà la tata di recapitarlo, alla fine, quel prezioso pegno – che primo ha svegliato in lei inconoscibili passioni.

È probabilmente ciò a cui pensò all’inizio Stanislavsky vedendo per la prima volta quelle colonne nella sala della casa moscovita, il luogo ideale dove ambientare la famosa scena della lettera, primum movens dell’opera, ciò che Čajkovskij scrisse iniziando a comporre Evgenij Onegin, forse, a dar retta a lui, obbedendo all’analogia biografica che fece scattare il quid dello spirito creativo, chissà. Di certo non si riesce ad immaginare – nemmeno per scherzo o per follia – Verdi scrivere I promessi sposi: occorre considerare come, per la cultura russa, il poema di Puškin fosse già all’epoca, poco dopo la morte dell’autore, circondato da una perfetta aura d’intoccabilità e di venerazione pari, se non superiore, a quella del capolavoro manzoniano dalle parti nostre.

Viveva Čajkovskij, tuttavia, un suo particolare momento – ci racconta – Antonina gli aveva scritto una lettera così simile a quella di Tat’jana e lui aveva reagito tal quale Onegin: lo stesso gelo, la stessa apparente indifferenza, lo stesso insormontabile distacco, degno del prototipo degli “uomini superflui”. Sì, d’accordo, i motivi della reazione erano profondamente diversi, ma il fatto di aver vissuto una situazione così simile a quella narrata da Puškin gli fece considerare tutto sotto diversa luce. Scattò qualcosa. Del resto l’Onegin, il romanzo in versi, intendo, di analogie, risonanze, rimandi ne offre tanti, curiosi o tragici, oltre alla lettera “affidata all’onore” che Tat’jana-Antonina scrive ad Evgenij-Pëtr: chissà se Puškin immaginava per sé una fine così simile a quella di Lenskij, in duello e per mano del presunto amante della moglie! Richiami, analogie, echi vitali e mortali.

E dunque, per comprendere Onegin, il poema e l’opera, perché non rimanga fondamentalmente del tutto estraneo al nostro mediterraneo sentire, occorre, allora, ancora una volta, partire di qui, seguire, cioè, idealmente, lo stesso percorso battuto, in virtù del suo personale sentire, da Pëtr Il’ič e poi da Stanislavskij, da questa scena che dell’opera costituisce il gelido cuore, la magica notte nella casa dei Larin, il sancta sanctorum dell’anima di Tat’jana, e di qui desiderare, come un grido inespresso, di poter intimare all’attimo, come Faust: fermati, sei bello!, e domare l’amore, frenare il tempo, afferrare la felicità. Si rincorrono per tutta la vita, i quattro giovani protagonisti, o meglio rincorrono l’amore e la felicità, che sarà causa del loro evolversi e divenire – ma anche della loro rovina e della morte. E così finisce, quest’Onegin reso stupido e insensibile dallo spleen che l’acceca e l’annienta, per diventare, ancor più nella lettura di Bertman, così apparentemente tradizionale, così esplosivamente innovativa, tanto tanto simile a un personaggio cechoviano, che di lontano, solo di lontano, riesce a rimirare la felicità, la felicità così vicina, la felicità che il cielo prende e porta via lasciando al cuore la tranquillità, anestetizzando per sempre il dolore, sigillandolo (soffocandolo) in eterno.

Perché la felicità – che pure sfiora, accarezza, blandisce i giovani protagonisti – non si ferma mai, è come acqua, che scorre, che cade, che trema e si divide, lasciando che l’incandescente e iridescente materia – musica canto drammaturgia danza scene costumi luci – mostri tutta intera l’indicibile poesia del sentire, e tutta insieme concorra all’emozione e al turbamento.

Così, ci appaiono, il giorno dopo l’emozionante prima, resistendo anche alla prova del sole, ancora indimenticabili e indimenticati certi momenti: il bacio tra Lenskijj e Ol’ga – lui, a cui presta la bella voce e una centrata interpretazione del goffo poeta Igor Morozov, lei, Irina Reynard giovane e promettente, dalle spiccate doti d’attrice che poi metterà in mostra nell’isterica disperazione per il disastro, provocato da lei, che costerà la vita al suo innamorato – sotto gli occhi fintamente scandalizzati della veemente e malinconica Larina di Natalia Zagorinskaia e dell’energica, affettuosa e incoraggiante Filipp’ovna di Larisa Kostyuk; il fermo immagine all’inizio del quadro del compleanno di Tat’jana – il Coro del Petruzzelli, diretto da Fabrizio Cassi, ha qui modo di felicemente cimentarsi con le arditezze della lingua slava, giocando anche un ruolo di sottintesa, discreta, elegante comicità – che congela in un colpo d’occhio le malinconiche fuggevolezze d’un tempo che più non torna, se non in certi ingialliti ricordi che somigliano a improbabili foto che s’illudono di fermare il tempo, oltre lo spazio.

O, ancora, la struggente confessione d’amor maturo del principe Gremin, dalle insospettate, frementi sfumature tutte messe in luce o in ombra dalla scura voce di Alexey Tikhomirov; l’insopportabile noia del personaggio eponimo, resa visivamente e musicalmente come meglio non si potrebbe nella scena del rifiuto dell’amore acerbo di Tat’jana dalla prorompente fisicità baritonale di Aleksei Isaev;  le struggenti, commoventi incertezze e goffaggini della giovane Tat’jana di una superba interprete come Olga Tolkmit che riesce come poche, in questo personaggio complesso in cui c’è tutto il divenire della vita, a rendere la trasformazione del brutto anatroccolo in cigno regale, lasciando tuttavia che s’intuisca il volo del cigno pur nelle movenze incerte e impacciate della giovinezza ingrata.

Su tutti e tutto, la musica, naturalmente, che, sotto la direzione di Valery Kiryanov riesce perfettamente a rendere il non detto, come spesso in Čajkovskij, l’eco del pensiero sovente in contraddizione col verbo e con l’azione, il flusso di coscienza, la libertà dello spirito che, come la fantasia, spesso precede e decide la storia che sarà, le dà un senso e un fine, ne costruisce irrimediabilmente l’anima, le dona, infine, una speranza. Perché la fantasia – oh, sì, perfino le infantili, innocenti erotiche fantasie di una ragazzina in una notte, ai primi tepori struggenti del giugno delle spighe e dell’incipiente pienezza – è sempre portatrice di profonda novità della storia, ne prepara il percorso, indica il segno e la direzione alla realtà che, poi, procederà spedita e implacabile: sa d’essere, la fantasia – esatto contrario della distruttiva noia di Onegin, che è l’eterna incapacità di trovare significato alle cose oltre l’apparenza loro – sempre un passo più avanti, fino a avvertire in sé vocazione e proposito di compiersi e divenire, come diceva quel gran vecchio, giovane per l’eternità, poeta, splendente avanguardia della storia.

PANORAMICA RECENSIONE
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evgenij-onegin-splendente-avanguardia-della-storiaEvgenij Onegin <br>di Pëtr Il’ič Čajkovskij <br> <br>Direttore: Valery Kiryanov <br>Regia: Dimitry Bertman, dall’originale storico di Konstantin Stanislavsky <br>Scene e Costumi: Viacheslav Okunev <br>Disegno luci: Damir Ismagilov <br>Coreografie: Edwald Smirnov <br> <br>Evgenij Onegin, Aleksei Isaev <br>Lenskij, Igor Morozov <br>Larina, Natalia Zagorinskaia <br>Tat’jana, Olga Tolkmit <br>Olga, Irina Reynard <br>Il Principe Gremin, Alexey Tikhomirov <br>Filipp’ovna, Larisa Kostyuk <br>Tricke, Dmitrii Ponomarev <br>Zaretsky, Dmitrii Skorikov <br>Gilio, Dmitrii Korotkov <br>Ambasciatore, Andrei Apanasov <br> <br>Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli <br>Maestro del Coro: Fabrizio Cassi <br>Produzione e allestimento scenico Helikon Opera Moscow <br>In scena dal 13 al 17 novembre 2019 <br>Lingua: russo con sovratitoli in italiano <br>Durata: 3 ore circa compresi due intervalli <br>Bari, Teatro Petruzzelli, 13 novembre 2019