Dimenticare Siviglia: la Carmen di Bieito alla Wiener Staatsoper

In streaming dal Wiener Staatsoper la Carmen di Calixto Bieito immersa in una vistosa contemporaneità

Non è piacevole per nulla, la pandemia: l’umanità si è come ritirata nel suo guscio, tutti abbiamo imparato ad evitare di frequentare luoghi affollati, di viaggiare, di andare al cinema o a teatro. Al momento non sappiamo quando e come questa grigia, invisibile prigione che tiene ben chiusi desideri d’azzurro e fame d’indicibili sicurezze potrà essere dissipata e lasciaci liberi: anche la possibile riapertura annunciata del 27 marzo sembra più che altro una novità sospesa tra la beffa e il simbolo, nulla che veramente possa incidere nella vita di quanti col teatro e nel teatro lavorano e vivono. Nel frattempo è buona norma, per la nostra salute mentale, cercare di far di necessità virtù e sfruttare al massimo le opportunità che la tecnologia più offrirci. Non è il massimo, lo streaming, diciamolo chiaro, è come guardare il mondo a due dimensioni, ne assapori larghezza e lunghezza, in una virtuale perfetta imitazione del reale, ti manca la profondità, pur se, insistendo, riesci a dartene una quasi perfetta simulazione. Offre, tuttavia, la tecnologia del presente, un compenso non trascurabile in cambio: la possibilità di godere d’occasioni lontane, non fruibili normalmente per mille motivi.

M’imbarco così su un aereo virtuale e decido di raggiungere Vienna, la Staatsoper, per la precisione, che ogni sera offre un gioiello preso dal suo tesoro che, come il regno dei cieli e lo scrigno del capofamiglia, è fatto di cose vecchie e cose nuove. Tra le cose nuove, prodotte in questo triste periodo, scelgo questa nuova produzione di Carmen di un allestimento molto famoso e altrettanto discusso, diretto da Calixto Bieito – uno degli enfants terribles delle scene liriche – prodotto dal Liceu di Barcellona insieme ai “nostri” Massimo di Palermo e Regio di Torino, che vinse, tra l’altro, il Premio Abbiati per la regia nel 2012 e che si avvale, in quest’occasione, di interpreti di grande sensibilità e richiamo come Anita Rachvelishvili, Piotr Beczała, Erwin Schrott, Vera-Lotte Boecker, mentre la direzione dell’Orchestra è affidata a Andrés Orozco-Estrada.

All’alzarsi del sipario i pochi elementi in scena ci impongono immediatamente di dimenticare Siviglia e la fàbrica de tabacos del 1820: una cabina del telefono e un’asta di bandiera ci trasportano in un mondo che conserva in comune con quello immaginato da Mérimée poco più che l’hispanidad e il machismo, entrambi, tuttavia, potenziati ed esaltati all’ennesima potenza. Siamo a Ceuta, terra di Spagna sull’estremo prolungarsi africano verso l’Europa, enclave assediata e affogata tra il mare  e due continenti, confine naturale che diventa sottile metafora d’ogni possibile limite – Bieito ha affermato che la sua produzione potrebbe essere ambientata in qualsiasi zona di confine – e d’ogni pensabile soglia: vuoto ondoso della sospensione e dell’attesa infinita, librato indefinitamente tra idea e possibilità, fisicità e pensiero. E se queste sono le coordinate geografiche dell’universo in cui il regista immerge la vicenda del soldato e della sigaraia, quelle storiche non sono meno significative: gli anni cinquanta della dittatura franchista sanno di traffici furtivi tra l’ombra e la luce d’una stagnazione che appare eterna nel suo asfittico e violento torpido trascorrere.

In questo quadro il chacun passe, chacun vient, chacun va che si svolge sur la place assume una particolarissima valenza, la temperatura inevitabilmente si alza, l’alchimia fornisce alla narrazione un fertilissimo brodo di coltura che esagera e acuisce le già potentissime emozioni, le conduce al limite d’una esasperata e rancorosa passionalità, scevre, alla fine, nella loro assoluta stilizzazione, d’ogni possibile riferimento al reale: puro pensiero emotivo. Ne risulta una Carmen primordiale, selvaggia, cruda, cui fa da contraltare il machismo soffocante e opprimente: non è forse una gabbia opprimente la cabina telefonica dentro cui Carmen è costretta a cantar l’habanera, traduzione immediata e visivamente potente dell’oiseau rebelle que nul ne peut apprivoiser, non è forse il Toro Osborne che fa da sfondo oscuro al Terzo Atto, simbolo d’una hispanidad forse un po’ di maniera ma certamente efficace, icona nera e insieme idolo primitivo dell’oscuro e asfissiante franchismo che impera e tace? Disegna così, Bieito, un mondo distopico e ipertonico, dove tutto appare sproporzionato ed eccessivo, dai pugni disperati dei maschi sulle carcasse di Mercedes lasciate alla ruggine alle cosce al vento delle zingare sigaraie, un mondo dove si respira il sesso e la violenza che impregna e avvelena l’aria come diossina.

È un avvinazzato Lillas Pastia che s’incarica di far da “Prologo” gridando alla platea che l’amour c’est comme la mort subito dopo l’ouverture, cui Andrés Orozco-Estrada imprime un ritmo forsennato, reso ancor più incongruo dal silenzio perfetto e gelido cui è condannato dalla mancanza di spettatori. E se l’atmosfera è soffocante e opprimente e tesa fin dall’inizio, scandita dalla marcia dei soldati allo schiocco del nerbo di Moralès, è un soldato in mutande e stivali che corre a vuoto in  punizione, fino a crollare stremato, intorno all’asta della bandiera – totem dell’assoluto nulla che affligge il mondo – a unificare la scena. La cabina telefonica, poi, dentro cui telefona Carmen è una trappola per mosche: un nugolo di soldati è attratto dal profumo di donna che si sprigiona da quella sorta di esca mielosa: quando la protagonista ne esce, la temperatura è salita abbastanza da rendere l’esecuzione de L’amour est un oiseau rebelle uno dei momenti più torridi – come del resto dovrebbe esser sempre – fino all’insistito gioco della rosa rossa che percorre il corpo di Carmen sotto gli occhi di Don José.

Il successivo duetto di Micaëla e Don José, di solito una delle scene più romantiche e toccanti, con la famosa lettera della madre, ci fa toccar con mano la riuscitissima operazione di Bieito: è un amore molto moderno, quello di Micaëla, che non vive più di sospiri e profumo di campagna, ma di selfie e fisicità, che si conclude tuttavia con la distruzione delle foto da parte di lui, vissuta come una vera e propria offesa da parte di lei. Meno felici i tagli vistosissimi a questa e alle scene successive: ne risulta un’accelerazione della vicenda che, se da un lato la rende più “digeribile” al gusto contemporaneo, abituato al format cinematografico, dall’altro non solo ci priva di molta buona musica ma rende anche – paradossalmente – meno credibile certi passaggi: è il caso della scena della seduzione di Don José, che molto sbrigativamente e con inverosimile prontezza dà un calcio ai suoi doveri e alla sua carriera: manca ogni travaglio interiore, ben evidente invece nell’opera originale.

Cede poi il regista, come molti suoi colleghi contemporanei, alla tentazione di “riempire” visivamente gli squarci sinfonici, quasi la musica non bastasse più, da sola, a dar significanza a ciò che l’Autore voleva esprimere: così, se l’operazione ci viene risparmiata per l’overture, la pur breve introduzione al secondo atto viene “animata” dalla presenza di una bambina che gioca con una Barbie vestita in perfetto stile flamenco, forse la figlia di Mercédès, forse la raffigurazione poetica dell’innocenza perduta di Carmen, e che addobba un albero di Natale sintetico con bandierine spagnole sotto l’affettuoso e poco credibile sguardo di Lillas Pastia, mentre la protagonista, sul tetto d’una scassata Mercedes, canta Les tringles des sistres tintaient. Al Terzo Atto, poi, durante l’entr’acte, un soldato si spoglia nudo e, nella penombra bluastra, danza come un rito pagano alla luna, forse cercando di assorbire l’energia dal gran Toro sul fondo: immagini indubbiamente potenti, cui fa riscontro una estrema povertà della scena. Ci si chiede, tuttavia, ed è inevitabile, se talvolta non si esagera un po’ nell’esegesi del testo e della musica che inevitabilmente finisce per essere un po’ ridondante rispetto all’essenza schietta dell’opera.

Anita Rachvelishvili è, ancora una volta Carmen, fin da quando, nell’ormai lontano 2009 esordì alla Prima della Scala nel ruolo eponimo, voluta da Emma Dante, diretta da Daniel Barenboim accanto a Jonas Kaufmann, la cantante più giovane ad aver mai aperto una stagione lirica alla Scala, uno dei casi in cui è veramente possibile dire che in una notte è nata una stella. Con i suoi capelli ed occhi scuri, incarna il personaggio a perfezione, la sua voce è meravigliosamente ricca e seducente, perché, pur perdendo un tantino di consistenza nella gamma media, rifulge drammaticamente e letteralmente divampa in alto e in basso e “l’amour” e “la mort” cantate da lei sono letteralmente da brivido.

È molto interessante, poi, la costruzione del personaggio di Don Josè da parte di Bieto, con l’assoluta perfetta complicità di un grande interprete come Piotr Beczala: è un soldato che nasconde i suoi demoni sotto la dura disciplina dei dragoni, man mano che questa dura armatura che ne tiene a freno l’indole rabbiosa e rancorosa cede e viene via, sempre più si rivela per quel che è: così, nel primo atto, nel lungo dialogo con Micaëla vediamo venir fuori, subito repressi, i segni d’una sensualità dominante e distruttiva, mentre aumenta sempre più la gelosia che lo trascinerà a fondo. Beczala serve questa sofferta trasformazione da par suo, con grande intelligenza interpretativa cui fa da contraltare il purissimo lirismo e la raffinatissima musicalità: siamo, evidentemente, nell’empireo dei grandi interpreti e, sebbene non raggiunga la capacità drammatica d’un Vickers o la ricchezza vocale d’un Domingo, ci fa toccar con mano, senza sforzo alcuno, il mutar del personaggio, dalla durezza del soldato represso alla follia omicida dell’assassino da strada: in mezzo al guado, posta non a caso al centro perfetto dell’opera, una grande interpretazione de La fleur que tu m’avais jetée, voce assolutamente pura nel suo immacolato fulgore, già screziata tuttavia di terreno e terroso arrogante e doloroso orgoglio.

Perfetta la scena e l’interpretazione, dunque, se il regista non rovinasse (quasi) tutto con le banconote (le stesse che ha ricevuto con la lettera dalla madre) che Don Josè mette in mano, dandole l’addio, ad una sbigottita Carmen: che non è Violetta e, soprattutto, don Josè non è Alfredo. Peccato. L’Escamillo di Erwin Schrott è meravigliosamente macho: basso-baritono di grande presenza scenica e dalla voce di velluto è, come sempre, perfetto, potendo facilmente far fronte a tutti i toni insidiosi del ruolo e fornendo, come toreador, una performance ideale. Micaëla è Vera-Lotte Boecker, voce di grande tenerezza lirica e intenso calore, che ben fluisce soprattutto nella fascia centrale, ma che raggiunge senza sforzo anche i toni alti che, nonostante la grande chiarezza timbrica, non diventano mai aspri. Disegna un personaggio che, come già accennato, molto si distacca dal solito cliché dell’innamorata pura e fragile della tradizione: in mano a Bieito diventa una piccola intrigante piuttosto ipocrita che si rivela, solo alla fine, nel gestaccio rivolto a Carmen quando sta portandosi via, apparentemente per sempre, il suo uomo: convenienze e inconvenienze teatrali d’ogni possibile attualizzazione dei personaggi.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
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dimenticare-siviglia-la-carmen-di-bieito-alla-wiener-staatsoperCarmen <br>di Georges Bizet <br> <br>Direttore: Andrés Orozco-Estrada <br>Produzione: Calixto Bieito <br>Scenografia: Alfons Flores <br>Costumi: Mercè Paloma <br>Regia: Calixto Bieito <br> <br>Carmen: Anita Rachvelishvili <br>Don José: Piotr Beczała <br>Escamillo: Erwin Schrott <br>Micaëla: Vera-Lotte Boecker <br>Frasquita: Slávka Zámečníková <br>Mercédès: Szilvia Vörös <br>Zuniga: Peter Kellner <br>Moralès: Martin Häßler <br>Remendado: Carlos Osuna <br>Dancaïre: Michael Arivony <br> <br>Orchestra e Coro del Wiener Staatsoper <br>Spettacolo in Francese con sottotitoli in Tedesco, Inglese e Francese <br>Durata: 3 ore circa <br>In streaming, 26 febbraio 2021