Dum laga ke haisha di Sharat Katariya

[rating=4] Dopo un incontro tra la stampa e la regista indiano-canadese Deepa Mehta (ore 12, Sala degli Specchi), ospite d’eccezione di quest’anno, la serata di apertura del River to River 2015 (Florence Indian Film Festival) ha riscosso notevole successo: sala piena fino alle ultime file della galleria.

La cerimonia d’inaugurazione ha visto l’intervento della vicesindaco Cristina Giachi, per la consegna delle chiavi della città a Deepa Mehta, e quello dell’attaché culturale dell’Ambasciata d’India a Firenze, che ha portato i suoi saluti ai fiorentini e ringraziato la direttrice, Selvaggia Velo, per “aver portato il cinema indiano in Italia”. Cinema che, come ha affermato la stessa Mehta nella conferenza della mattina, va ben al di là della produzione di Bollywood.

Dal sapore bollywoodiano, tuttavia, è la brillante commedia che ha concluso la serata: Dum laga ke haisha (My big fat bride, 2015) di Sharat Katariya. Con un titolo che riecheggia Il mio grosso grasso matrimonio greco (Joel Zwick, 2002), il film (di fiction) ironizza sulle contraddizioni di un retaggio culturale apparentemente indistruttibile: quello dei matrimoni combinati. Paradosso della consuetudine informale, dato che, come mostra la pellicola, la legge indiana prevede comunque la possibilità di divorzio.

Dum laga ke haisha di Sharat Katariya

Nato quasi per caso dalla visione di alcune immagini di calendario, il film riporta l’idea che valori fondamentali del matrimonio siano il rispetto e la tenerezza, al di là di ogni stereotipo ingannevole e romantico. La cura reciproca dei coniugi è il pilastro su cui si regge l’intera struttura matrimoniale e richiede, oltre all’abbandono di ogni sciocca pretesa, dedizione all’altro, lavoro di squadra.

Il tema è affrontato con leggerezza e molto tatto, un umanesimo che vuole “celebrare la vita” seguendo l’esempio (lo ha detto lo stesso regista) della cinematografia italiana.

Una cosa è certa: i bamboccioni” capricciosi non sono una prerogativa italiana e la difficoltà che si trova nel concludere un matrimonio oggi non dipende dal modo in cui viene contratto (quasi fosse una malattia), ma dall’immaturità di molti coniugi e dalle false aspettative che la società odierna produce in essi.

L’autenticità non è un dono spontaneo ed eterno, ma qualcosa che si conquista lentamente e a fatica, con un profondo lavoro su se stessi che conduce all’altro e ci rende più umani, comprensivi, teneri, accoglienti.

Importantissimo è il ruolo della musica. Prem, il protagonista, lavora col padre nel negozio di famiglia, dove vende e ripara audiocassette. La sequenza iniziale celebra proprio questa dimensione, con dettagli e inquadrature che trasformano quelle cassette in oggetti vivi, quasi magici. Gli stessi che, col procedere della narrazione, divengono strumento di una comunicazione improbabile: dal litigio alla riconciliazione, tutto passa attraverso la musica e le audiocassette che la contengono.

È più che doveroso, dunque, stimare il lavoro di Andrea Guerra, compositore italiano che ha collaborato, per mesi, col regista Sharat Katariya solo grazie all’uso di Skype. Il palco dell’Odeon (cinema-teatro del 1922, quindi dotato di ampio palcoscenico) diviene così anche il luogo (storico) del loro primo incontro.

La musica di Guerra satura le immagini che scorrono sullo schermo, mantenendo un ritmo semi-tribale e coinvolgente, vitale. Salvifica, nell’ambito della diegesi, l’“apparizione” del cantante Kumar Sanu, tra i più celebri di Bollywood, di cui il protagonista è un grande ammiratore e la cui musica ricorre durante tutto il film (di particolare rilevanza la canzone Tu della sequenza di apertura). Il finale comprende invece una scena corale, animata da colori e danze che conferiscono alla pellicola il definitivo accento bolliwoodiano. Il tema musicale è dato dalla canzone Dard Karaara (voci di Kumar Sanu e Sadhana Sargam).

Ottima serata dunque. Cui è necessario muovere un unico rimprovero: l’aver definito “fantastico” il matrimonio indiano tenutosi di recente in Piazza Ognissanti (il 27 novembre, con accese polemiche intorno ad un “elefante negato”).

Si tratta, infatti, di uno dei casi, ahimè sempre più frequenti, di svendita della città e di sottrazione del patrimonio ai cittadini sovrani. Sono atti gravi, che non aiutano il confronto tra culture, perché contengono in sé una dimensione di prevaricazione. Diverso è ospitare ciò che di meglio la cultura indiana ha da offrire, il suo cinema d’autore, nella migliore cornice che Firenze possa offrire: il Cinema Odeon. Ci vediamo al cinema!

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