C’est si bon e Dachimawa Lee

Firenze: quarto giorno di Florence Korea Film Festival con due lungometraggi di Ryoo Seung-Wan e Kim Hyun-Suk, esponenti del cinema contemporaneo coreano

Uno spicchio di Corea a Firenze, la rassegna cinematografica Florence Korea Film Festival sta per giungere a termine. Noi abbiamo visto, lunedì 14 marzo, un tipico e allo stesso tempo anomalo lavoro del regista contemporaneo Ryoo Seung-Wan e C’est si bon di Kim Hyun-Suk.

[rating=3] Dachimawa Lee, pellicola del 2008, è una strampalata ma serrata parodia della più classica delle spy-stories. Nelle intenzioni del regista, classe 73, c’è proprio l’omaggio spassionato alle serie televisive coreane con cui si è nutrito da piccolo, pur deformate con uno stile ultra ironico – che sfiora una certa intelligente demenzialità. Il filo logico della trama manca spesso e volutamente, a creare un effetto di straniamento tutt’altro che spiacevole, complice un montaggio frenetico. Interessante è anche la tecnica del film, una fotografia e a una estetica che lo fanno sembrare un prodotto degli anni Settanta.

Dachimawa Lee

A tratti richiamando il western psichedelico di Jodorowsky El topo, questa è la storia del leggendario Dachimawa Lee, spia imbattibile e gran rubacuori, che tenta di portare a termine una nuova missione, il recupero del Buddha d’oro contenente i nomi dei partigiani coreani sparsi per il mondo. Siamo all’epoca dell’occupazione giapponese e il governo incarica la spia di ritrovare la statua, per salvare il paese. Moltissime le trovate esageratamente comiche, palese la parodia melodrammatica e assurda di tipiche situazioni hollywoodiane e appartenenti al genere dello spionaggio; incessanti gli inseguimenti e le gaffes, i combattimenti ma anche una sottile, seppur comica, critica alla criminalità organizzata. Il film è un’esplosione di colori e riserva qualche scena saliente e puramente spettacolare.

[rating=3] Con C’est si bon il clima si fa più disteso e serio. Alla presenza del regista Kim Hyun-Suk, che lo introduce brevemente, assistiamo a un film impeccabile dal punto di vista visivo, senza sbavature e incongruenze, limpido come la campagna coreana. Inizia nel presente e poi si affaccia, con un lungo flashback, sulla Seul degli anni Sessanta, un’epoca d’oro per il genere musicale folk – canzoni popolari della tradizione, rese pop. La storia ruota attorno al mitico, realmente esistito, locale di musica dal vivo C’est si bon, dove si forma un trio che vuol essere la versione coreana dei Beatles (anche questo un reale fenomeno di costume e società). Tre giovanissimi musicisti e cantanti, due di loro dirompenti, il terzo timido dalla voce molto profonda, fanno impazzire le folle di ragazzine, in una delle stagioni dorate della musica della Corea del Sud. All’apice del successo, il protagonista Geun-Tae lascia la carriera in seguito al tradimento della ragazza che ama, vanitosa aspirante attrice, e il gruppo si scioglie dopo l’arresto di due dei suoi componenti per uso di sostanze stupefacenti. I personaggi si ritrovano vent’anni dopo negli Stati Uniti, dove l’amicizia torna a farsi viva, insieme ai traumi del passato.

C'est si bon

Rimane impressa la naturalezza della recitazione, insieme a una certa delicata analisi dei sentimenti che si fa pungente nel finale. Qui l’oramai maturo Geun-Tae si accascia al muro dell’aeroporto dopo aver rivisto la donna che spezzò il suo amore giovanile, e dopo averle omesso di averla salvata dall’arresto per uso di marijuana grazie alla sua testimonianza. Il picco emotivo svela il lato doloroso della sceneggiatura e della regia, non più manieristica e scanzonata, ma sinceramente toccante. Non si tratta di un lavoro sperimentale, ma comunque un film che indaga il cambiamento psicologico, caratteriale, epocale, lasciando intravedere l’ombra del regime militaristico.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here