American Sniper di Clint Eastwood

[rating=3] Se siete facilmente impressionabili questo film non fa per voi. Vi è solo un momento realmente scioccante, ma sarà più che sufficiente a lasciare un segno indelebile nelle vostre coscienze. Così, incancellabile sarà l’immagine di quel bimbo iracheno, ucciso da un trapano conficcato in testa. Tecnicamente il film è buono: Eastwood si conferma ancora una volta un ottimo regista, consapevole dei propri mezzi e pronto ad usarli in modo efficace. Ottima la fotografia, l’uso della camera e la capacità di costruire la suspence, con cui l’amato Clint ci tiene incollati allo schermo per più di due ore. Ottima l’interpretazione di Bradley Cooper, di stazza forse un po’ troppo accresciuta, e di Christian Iansante, suo doppiatore ufficiale, che pedina l’attore con perfetta aderenza.

Il punto controverso è il messaggio che il film lancia.
Chris Kyle è un eroe di guerra con un talento particolare: è il cecchino più letale della storia degli Stati Uniti. Si arruola tardi nell’esercito, ma diviene presto una leggenda per la precisione con cui è capace di freddare il nemico. La sua storia è un’altalena tra le missioni in Iraq e i ritorni in patria, a cercare di portar avanti il proprio ruolo di buon padre di famiglia. Quando si nasce eroi, però, la normalità non basta: così, anche in patria, dopo l’ultimo definitivo ritorno, Chris sente il bisogno di rendersi utile e s’impegna ad assistere i reduci. Altruismo che gli sarà fatale.

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Da che parte stia Eastwood pare evidente: la critica ai valori che muovono l’eroe è solo apparente, né si prende in considerazione il punto di vista degli iracheni. Conosciamo Chris da vicino, nell’intimità familiare, mentre i suoi avversari non ci vengono presentati con altrettanta cura. E alla fine, benché la guerra appaia in tutto il suo orrore, il patriottismo che permea la sequenza finale fuga ogni dubbio: discutibile è la guerra, non il valore di Chris. È un omaggio all’eroe, ad un uomo che non si è mai risparmiato.

Lodevole ricostruzione secondo la critica mainstream, pericolosa mistificazione secondo Lindy West del «Guardian».
Tuttavia, un argomento fra tutti emerge con prepotenza. È il dilemma, universalmente condivisibile, che opprime chiunque operi in zone di guerra: il bisogno di pace, di tornare ogni tanto alla normalità, contrasta con la necessità di fare il proprio dovere, con l’impossibilità di scrollarsi di dosso la guerra.

Per due motivi sostanziali: il primo è che abituarsi a vivere sempre sotto l’effetto dell’adrenalina crea dipendenza. Il secondo, più forte, è che, mentre si è in patria, il pensiero corre costantemente a coloro che sono rimasti al fronte, a rischiare la vita. La sicurezza così ottenuta innesca il senso di colpa ed un irrefrenabile desiderio di tornare al fianco dei compagni, per proteggerli e non lasciarli morire da soli. Finché si giunge al limite.

Il problema, si diceva, è ben posto nel film. Quello che manca è la critica dei valori che muovono l’eroe: è dato per scontato che l’uso che Chris fa della violenza sia legittimo, perché finalizzato alla protezione di vite umane. Non vi è critica all’educazione che Chris ha ricevuto, secondo cui esistono tre tipi di esseri umani: le pecore, vittime indifese, i lupi assalitori e i cani da pastore, che usano la violenza per proteggere le pecore dai lupi.

Non vi è critica al fatto che, come terapia per i reduci di guerra, non vengano usati il teatro, la musica, l’arte, attività ricreative, ma il tiro al bersaglio, lo sparo, ovvero una prosecuzione di quella guerra che ha devastato la loro vita. Non vi è critica al tipo di scelte che vengono fatte durante le operazioni militari, quasi tutte di terra, quasi tutte di guerriglia: conduzione paradossale se si pensa al mito delle bombe intelligenti e alle tecnologie di cui oggi gli strapagati eserciti dovrebbero disporre.

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L’andamento è quello del western, che si risolve con il duello finale tra i due “cowboys”: il gringo Chris, ed il siriano Mustafà. Ovvio immaginare a chi spetta l’ultima pallottola. Ma che il bene stia dalla parte di Chris non è dubbio, tanto che egli afferma prontamente di poter rispondere al creatore di ogni singolo sparo.

Gli iracheni sono degli assassini sanguinari: eppure, il micidiale cecchino, che tanti ne ha fermati, salvando la vita ai suoi connazionali, non era al suo posto quando Il Macellaio ha trapanato il cervello di quel bambino. E non convince il fatto di vederlo impegnato in uno scontro a fuoco con Mustafà: il cecchino siriano copriva il trapanatore iracheno e non c’è stato niente da fare? Certo, in seguito entrambi hanno pagato il fio della loro condotta; ma rimane il fatto che nessuno ha impedito che fosse quella piccola vittima indifesa a pagare, con la vita, l’orrore generato dagli adulti. Perché quella pecora non è stata salvata?

Addurre che il nemico era troppo forte in quel momento non è una scusa convincente: pare piuttosto il tipico espediente retorico con cui si costruisce la narrazione di guerra. È un metodo antico: esaltare i meriti del condottiero quando vince ed esagerare le capacità del nemico quando l’eroe fallisce. Resta il fatto che il cane da pastore, qui, non ha fatto il suo dovere: non ha protetto la pecora indifesa. Forse perché non apparteneva al suo gregge?

Insomma, la guerra è sinonimo di orrore perché assolutizza il male: dove si combatte, eroe e assassino sono spesso la stessa cosa e il più delle volte chi paga le conseguenze della lotta tra lupi e cani da pastore sono proprio le pecore che dovrebbero ricevere protezione. Nessuna guerra, dunque, può rappresentare una soluzione, bensì solo una moltiplicazione dell’orrore.

Così, temendo che altre piccole pecore ne paghino le conseguenze, chi scrive sente il bisogno di ribadire che è necessario “ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, come prevede l’articolo 11 della nostra Costituzione.
Perché la guerra fa schifo e uccide gli eroi, persino in patria.

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