
[rating=3] Grande giornata ieri al Festival dei Popoli, che ha registrato il tutto esaurito per le proiezioni di Firenze, Novembre ’66 di Mario Carbone e Maldarno di Duccio Ricciardelli. I registi hanno presentato le loro opere ad una sala gremita di spettatori. Affluenza di pubblico confermata anche per Dior and I di Frédéric Tcheng, al Cinema Odeon ore 21.
Organizzare una collezione in sole otto settimane e gestire la pesante eredità lasciata dal maestro Christian Dior, darle una nuova e più moderna forma. Questa la sfida che Raf Simons, stilista belga di prêt-à-porter dovrà affrontare: la sua prima collezione di aute couture dovrà essere realizzata in tempi da record e conciliare il suo approccio, da molti considerato “minimalista”, con la tradizione della Maison.
Per realizzarla verrà affiancato da una équipe di sarte e sarti altamente qualificati (alcuni dei quali con oltre 40 anni di esperienza) che lo aiuteranno a dar corpo alle sue idee. Centrali le direttrici dei due atelier tra cui viene diviso il lavoro: Florence Chehet (per l’atelier flou, ovvero per i vestiti) e Monique Bailly (per l’atelier tailleurs, ovvero per i completi). La prima, solare ed espansiva, legherà subito con Pieter Mulier, l’assistente personale di Simons, l’altra, più ansiosa e introversa, dimostrerà prontezza di spirito e estrema competenza.
Il regista, Frédéric Tcheng, segue tutti gli stadi della lavorazione, documentando la vita dietro le quinte con freschezza e attenzione: dall’ingaggio di Simons fino al momento della performance, il film descrive un percorso ad ostacoli di cui la sfilata è il momento culminante, la degna conclusione.
Il tutto alternando immagini di repertorio della vita e del lavoro di Christian Dior, di cui Simons inizia a leggere le memorie, con gioie e difficoltà del lavoro odierno. E alcune interessanti scoperte. Anzitutto, riguardo al finanziamento di queste collezioni: non si tratta infatti di semplici investimenti, ma del risultato ottenuto mediante un costante lavoro da parte degli atelier. Ogni sarta/o ha dei propri clienti che deve coltivare per procurare alla Maison le entrate necessarie a produrre le collezioni. Come al solito, c’è sempre un secondo lavoro che serve a finanziare l’arte.
In secondo luogo, il fantasma di Dior, che dicono si aggiri di notte per gli atelier, controllando la qualità del lavoro svolto. Un’ottima scusa per il regista per far rivivere lo spirito del maestro in ogni abito, quando, a laboratori chiusi, lo rievoca attraverso la sovrimpressione delle immagini di repertorio sugli abiti custoditi dalla penombra. Infine scopriamo che, anche nel mondo della moda, le persone hanno un’anima, dei sentimenti…dignità. Così anche Simons si commuove di fronte ai pezzi che più ha voluto curare: cappotti e vestiti creati dalle stampe dei quadri di Sterling Ruby, pittore astratto californiano. E che, da non crederci, anche Anna Wintour (la direttrice di Vogue cui si ispira il personaggio di Miranda Priestley ne Il diavolo veste Praga) sa essere gioviale! Almeno nei confronti di Simons.
A proposito di confronti, è stato più volte ribadito (nei documenti che accompagnano il film, come dalla coordinatrice Claudia Maci che lo ha presentato) che questo documentario pone in evidenza anche il confronto tra Simons e Dior: un confronto tra generazioni diverse, tra stili diversi, ma che porta ad un unico risultato, ovvero il percorso parallelo che accomuna i due stilisti. A tal punto, che Simons, suggestionato, è costretto a interrompere la lettura delle memorie del maestro.
Film dal punto di vista interessante, dunque. Se non fosse per un piccolo disagio che può sopravvenire di fronte a questa visione così edulcorata: in molti sanno che gli aspetti più duri del mondo della moda non riguardano normali, benché accesi, scontri tra collaboratori, ma vanno ben oltre, giungendo ad avere effetti distruttivi sulle vite di chi, in quel mondo, tenta di realizzarsi.
Tuttavia vi è qualcosa di più: ammirando la decorazione floreale che ravviva la location della sfilata, non ci si può esimere dal chiedersi quanto sia costato quel lussuoso e fiabesco labirinto (da Alice nel Paese delle Meraviglie?). Non in termini di denaro, ma in termini di differenza sociale e ambientale. Oltre alle povere orchidee appese, ci si chiede se sia ancora il tempo di impiegare le risorse disponibili per alimentare l’opulenza di chi ben vive, senza farsi toccare dalla miseria che impervia fuori di ville e atelier.
Discutibile quindi la scelta del soggetto, dati i tempi? Non necessariamente: il documentario non può essere sempre e solo inchiesta, denuncia. Documentare la realtà significa comporre diversi punti di vista, ma ciò non implica che questo compito debba essere assolto da un solo regista, da un solo documentario. Così è alla fine del percorso, contemplando il Festival nel suo insieme, che si potrà valutare realmente se i vari aspetti della realtà sono stati posti in dialogo tra loro.
E già oggi ci aspettiamo una smentita: la visione edulcorata che Dior and I ci ha proposto, verrà certamente bilanciata da Ma’a al Fidda/ Silvered Water, Syria Self-portrait di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan in programma stasera al Cinema Odeon ore 21. Un documentario esplicito, senza filtri, tanto da richiedere un’avvertenza per gli spettatori più sensibili, che potrebbero rimanere scossi dalle immagini troppo crude (o crudeli?). Che gli organizzatori abbiano voluto indorarci la pillola prima di…? Ehm. Lasciando a casa il sadismo, e la ricerca del dolore a tutti i costi, non sfuggiremo a questo confronto. E voi?
Ci vediamo al cinema!