
È in scena fino al 12 marzo in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino Sogno d’autunno di Jon Fosse. Per la quinta volta il regista Valerio Binasco, apprezzato anche come attore sul grande schermo (ne Il giovane favoloso interpretava Pietro Giordani e in Alaska per il personaggio Sandro si è conquistato la nomination ai David di Donatello) si confronta con il drammaturgo norvegese, autore contemporaneo tradotto in oltre quaranta lingue.
Il tempo, la famiglia, la nostalgia, gli incontri mancati, la caducità della vita sono solo alcuni dei temi portanti che fanno da sfondo a un mondo che sembra non avere una storia precisa.

La scena si apre con Michele Di Mauro, l’Uomo, che mentre passeggia in un cimitero nella stagione autunnale, si ritrova faccia a faccia con la Donna, interpretata da Giovanna Mezzogiorno, che sembra essere comparsa dal nulla, spinta fin lì da una forza sconosciuta, fatale. È una visione, un ricordo, un incontro reale? Inizia una conversazione da cui trapela un sentimento d’amore tra i due lasciato in sospeso, mai consumato in un passato imprecisato. Il cimitero si fa pretesto per parlare della caducità della vita. In un groviglio di se, di ma, di allusioni, rimpianti e recriminazioni, in loro sembra riaccendersi l’antica passione a cui cedono dolorosamente, perché l’uomo nel frattempo si è sposato e ha formato una famiglia con un’altra donna. In un salto spazio temporale compare alle spalle della coppia, rimasta cristallizzata nella scena del cimitero, un interno borghese con la madre e il padre dell’Uomo che si stanno preparando per andare al funerale della nonna. Quando si ritroveranno tutti al cimitero si capirà che l’Uomo nel frattempo si è separato dalla prima moglie per legarsi alla Donna. Si intuisce che i genitori non hanno accettato il divorzio e il suo allontanamento dalla famiglia. Nel momento in cui entra in scena la prima moglie per dare una notizia terribile e per riversare sull’Uomo tutto il suo rancore, i toni dell’allucinazione lasciano il posto a quelli del melodramma. E quando l’Uomo e la Donna rimangono nuovamente soli, la rappresentazione del tempo si fa ancora più ambigua, passato, presente e futuro diventano un unicum inafferrabile.
Per un’ora e mezza si assiste ad un drammone senza dramma, in cui è impossibile identificarsi perché manca una storia, manca un focus, mancano i personaggi e quindi l’interpretazione. L’Uomo è una banderuola al vento senza spina dorsale, senza nessun potere decisionale, circondato da tre donne con le idee più chiare delle sue, di cui lui avverte solo gli starnazzi che sembrano infine portarlo alla morte. La parodia è dietro l’angolo.

Nel retroscena al Teatro Gobetti di Torino il 1° marzo il regista e gli attori hanno incontrato il pubblico per offrire le chiavi di lettura per questo testo molto ostico. Binasco confessa di aver percepito nel testo di Fosse una commozione e una pietà non rintracciabile in Ibsen. I due autori hanno infatti la stessa nazionalità ma la loro drammaturgia è ben diversa. In Ibsen le dinamiche sociali fanno da sfondo alle relazioni tra i personaggi, mentre Fosse sembra avere un’idea metafisica dei rapporti umani. I suoi personaggi sembrano essere senza identità, sganciati dalla realtà, assoluti, spinti dal fato verso una felicità impossibile da raggiungere perché l’amore e la speranza sono sempre minacciati da qualcosa che li sovrasta: la follia, la solitudine, la vecchiaia, la morte.
Gli attori Michele Di Mauro e Giovanna Mezzogiorno hanno espresso le loro difficoltà nel rendere qualcosa di vivo ed emotivo questo testo rarefatto. E la fatica si percepisce anche sul palco. Negli spazi vuoti del non detto si dovrebbe cogliere il senso dell’esistenza e provare empatia. Purtroppo questo non avviene. Se è vero poi che Fosse prende le mosse da Samuel Beckett, in questo spettacolo manca il gusto della scrittura, della parola, la forza enigmatica e l’ironia surreale, quest’ultima rintracciabile solo nella carismatica Milvia Marigliano che spicca nettamente sugli altri attori. È difficile provare empatia nei confronti di personaggi senza volto, senza una storia, dove le coordinate spazio temporali sono continuamente scardinate. Almeno i personaggi di Beckett inventano altre dimensioni dell’esistenza, seppure assurde e surreali, per contrastare il nulla che li circonda. Qui vi è un deserto di nulla e basta.