Se una vedova allegra, un noioso pedagogo e due rancorosi amanti sono in Crisi di nervi

Al Teatro Nuovo di Napoli si mettono in scena tre petites pièces di Anton Čechov

Crisi di nervi © Tommaso Le Pera
Crisi di nervi © Tommaso Le Pera

Sullo sfondo la boiserie è grigia, quasi non se distinguono più modanature e rilievi, del tutto letteralmente ricoperti d’un pulviscolo polveroso e annoso, quasi cadaverico nel suo posarsi e radicarsi silente: una tomba, più che salotto buono d’onorata casa borghese – o, tuttalpiù, sede d’una qualche agenzia mortuaria –, impressione accentuata dal tavolo nero al centro, unico arredo, e da nove massicce sedie arpa, parimenti nere. Siamo al Teatro Nuovo di Napoli, va in scena Crisi di nervi, tre atti unici di Anton Čechov in un allestimento che porta la firma prestigiosa di Peter Stein, ormai quasi un mito per chi ama il teatro e quello cechoviano in particolare.

Tra il 1888 e il 1889, quando videro alla luce i tre piccoli lavori, Čechov era già famoso come novelliere e anche il suo grande amore per il teatro, sbocciato dopo aver visto La belle Hélène di Offenbach, aveva già trovato il suo sbocco in alcuni primissimi lavori: Senza padre, l’incompiuto Platonov e soprattutto Ivanov, scritta l’anno prima anche se presentato con alterna fortuna. Ma la sua vena ironica – la stessa che lo portò a inseguire per tutta la vita, fino al Giardino dei ciliegi, il perfetto vaudeville sul modello francese – era esigente e trovò sfogo in una serie di piccoli atti unici, scherzi scenici dalle poche pretese e dal successo assicurato, di fatto sperimentando tono, ritmo e caratteri che poi costituiranno le basi del suo teatro più maturo.

È già incrinata, tuttavia, la risata, in questi petites pièces in cui, soprattutto, testare rigorosissimi ritmi teatrali e il cimento con i ferri del mestiere tipici dell’arte comica: il tormentone, la parodia, la follia, la deformità fisica e psichica. La storiografia teatrale riconoscerà solo più tardi che questi atti unici sono fondamentali per capire la rivoluzione cechoviana della comicità psicologica, perché se è vero che in Čechov il grande teatro è quello delle commedie-tragedie corali, è altrettanto esatto affermare che questi atti unici brevi sono laboratori dove saggiaretossiche relazioni: la comicità non è superficiale, veste la tensione, la frustrazione, il desiderio trattenuto.

Perché, alla fine, ciò che unifica davvero tre atti dall’apparenza eterogenea non è la comicità ma la patologia della normalità borghese: la famiglia diventa teatro di costrizione, le relazioni scambi isterici, i ruoli sociali dispositivi comici, la società, che dovrebbe proteggere l’individuo, invece lo schiaccia. Era ovvio che una tematica del genere dovesse attirare prima o poi l’attenzione di un grande uomo di teatro come Peter Stein: fondatore e anima della Schaubühne di Berlino, ha sempre guardato a Čechov come l’Autore capace di interrogare la crisi borghese europea, fin da quel 1974 in cui mise in scena Il giardino dei ciliegi, allestimento che fece epoca per il rigore filologico e la lentezza contemplativa, proponendo, nel pieno degli Anni di piombo, un tempo dilatato, russo, in cui il dettaglio quotidiano diventava specchio di un mondo in disfacimento.

Seguirono altre produzioni cechoviane nella programmazione della Schaubühne, sempre caratterizzate da recitazione corale e lavoro minuzioso sulla verità psicologica: con Tre sorelle e Zio Vanja, Stein consolida la sua fama come regista cechoviano, dove prevale grande attenzione ai silenzi, alla tensione sotterranea, al tempo sospeso, la sua regia si muove tra precisione quasi scientifica e poesia sommessa, evitando tanto l’eccesso melodrammatico quanto il puro naturalismo e diventando così punto di riferimento per il modo di ascoltare Čechov, influenzando tutta una generazione di registi europei.

E allora, dal 1974 a oggi, il filo rosso è evidente: Stein non cerca in Čechov un autore “moderno” da reinventare, ma uno specchio di fragilità umane universali, la sua regia rimane fedele a un’estetica di precisione che si nutre di parola chiara, tempi rigorosi, centralità dell’attore, perché ogni ritorno a Čechov è stato, per Stein, un esercizio di onestà teatrale in cui spogliare la scena di artifici per lasciare emergere la complessità nascosta nei rapporti umani.

Crisi di nervi – © Tommaso Le Pera

Così ne L’Orso due solitudini — Elena Ivanovna Popovauna, vedova ancora giovane e Grigorij Smirnov, irruento proprietario terriero — passano dalla lite feroce all’innamoramento esplosivo in poche ore: Popova si è chiusa nel lutto, imponendosi una fedeltà postuma teatrale più che sincera; Smirnov arriva per riscuotere un debito del defunto marito. Passando dalla tensione economica alla tensione emotiva, il conflitto verbale degenera in duello (lei vuole sparare davvero), fin che l’odio trasmuta, improvviso, in desiderio, i nervi cedono, l’Eros irrompe. Un testo ibrido che certo è commedia degli equivoci ma, ancor più, indagine sui ruoli sociali e sessuali: il lutto diventa performance, la memoria custode di un ruolo più che di un sentimento, il linguaggio certificazione di un fallimento, prima aumentando la distanza poi cancellandola d’un colpo, il desiderio represso diventa motore comico, la violenza erotismo.

I danni del tabacco è un monologo che vede il protagonista chiamato dalla moglie a tenere una conferenza pubblica sui danni del tabacco, ma il discorso si trasforma subito in uno sfogo personale, rivelando nevrosi, frustrazioni e una vita familiare oppressiva. Ivan Ivanovič Njuchin è così il prototipo del marito fallito, goffo e sottomesso, il discorso pubblico, dove potrebbe finalmente parlare davvero, diventa invece autenticazione del fallimento personale, nessuno lo ascolta: dovrebbe illustrare i pericoli del tabacco, ma devia continuamente, confessa di non saperne nulla, lamenta tirannia della moglie, sogna libertà, ma rimane schiavo delle convenzioni. Il tabacco è un finto tema, perché l’autentico veleno è, in verità, la vita di Njuchin, nasce, la risata, dall’inadeguatezza comica ma viene subito gelata dal senso di pietà, la maschera comica rivela abisso esistenziale, un senso di disagio s’insinua obliquo tra le poltroncine rosse in platea.

Inizia, invece, La domanda di matrimonio, quando Ivan Vasil’evič Lomov, proprietario terriero, va a chiedere in sposa, per l’appunto, la figlia del vicino, Natal’ja Stepanovna: prima della proposta scoppia un litigio assurdo su un confine di campi, poi sulla qualità del cane da caccia, crolli emotivi, ipocondria, svenimenti, ma… nonostante tutto, il matrimonio viene accettato, alla fine, tra grida e recriminazioni. E certo qui c’è, amara, la critica alla piccola nobiltà rurale che maschera il declino economico con un teatro di buone maniere, il matrimonio è transazione più che sentimento e di sicuro questo atto unico rappresenta in forma caricata ciò che, nelle opere maggiori, diverrà il malinconico sigillo cechoviano, l’incapacità di comunicare che travolge le relazioni. Ma c’è dell’altro – che i contemporanei non potevano supporre – in quell’aggressività che esplode dal nulla, nello spaesamento emotivo, nel matrimonio come istituzione fallimentare: un’anticipazione di certa angoscia da teatro dell’assurdo di Pinter o di Ionesco dove l’impossibilità di comunicare non è il silenzio, non sono le pause che, pure, come in una partitura musicale, sono distribuite ad arte nel corso della pièce, l’incomunicabilità può nutrirsi, pure, voracemente, di parole, parole maligne, parole urlate, parole sibilate come staffilate.

La regia di Peter Stein e le scene disegnate da Ferdinand Woegerbauer, con l’essenziale collaborazione di Anna Maria Heinreich per i costumi e Andrea Violato per le luci, ha l’intuizione di riunire i tre testi sotto un’unica cornice – nell’adattamento firmato dallo stesso Stein insieme a Carlo Bellamio – e di trattarli come movimenti di un’unica sinfonia: la scenografia stabile, il cast fisso, l’assetto tecnico comune contribuiscono all’effetto di continuità. Non tre spettacoli separati, dunque, ma tre momenti di un unico viaggio emotivo: questo rende l’allestimento ancora più pregnante, lo spettatore entra in una “macchina delle nevrosi” che si attiva e restituisce un crescendo, non un insieme disgiunto.

È semplice, in fondo, l’idea portante: restituire la verità minuta delle esistenze quotidiane, senza sovrapporre un’interpretazione registica invadente, mantenendo tempi lunghi e dettagli realistici, in un’epoca teatrale che tende invece alla velocità e all’estetica del frammento. Compie così, Stein, sotto l’occhio nostro, un’operazione eguale e contraria alla moda corrente, cercando invece di ricomporre in unità ciò che era spezzato, dei piccoli atti unici fin de siècle – che mettono alla berlina la Belle Époque della tronfia sicurezza del denaro e delle immutabili certezze – riesce a cogliere non solo il momento buffo ma soprattutto la falla psicologica che ogni scena nasconde, l’unità scenica diventa riflessione arguta e dolceamara su Čechov stesso: l’autore che ride e piange, che mostra, sanguinante, la fragilità dietro la facciata.

La scena è allora essenziale, spoglia, funzionale, la parete di fondo dalla polverosa boiserie cui si accennava  all’inizio, qualche sedia, un divano, un tavolino, una lavagna: elementi minimi che permettono agli attori di entrare e uscire senza distrazione; la scelta scenografica risponde all’idea di Stein che vuole un teatro di precisione, in cui lo spazio non sovrasti l’azione ma la renda visibile. Perché una componente fondamentale di questa regia è il ritmo: Stein costruisce ciascun atto con variazioni ritmiche, pause calibrate, momenti di sospensione che dilatano la comicità e la fanno diventare “disagio”, la tensione cresce, il tempo come fissazione appare e la struttura si allunga fino a mostrare la caduta dei personaggi.

Crisi di nervi – © Tommaso Le Pera

Lo sguardo del regista tende a raffreddare la farsa, elimina eccessi grotteschi, lavora sul realismo psicologico anche nel comico centrando la sua riflessione sulla relazione, non sull’effetto, dando precedenza assoluta alle relazioni reali e non alla caricatura o alla parodia. Naturalmente, in questo caso, più che mai è importante il lavoro degli attori: la Compagnia – Maddalena Crippa, Gianluigi Fogacci, Alessandro Averone, Sergio Basile, Alessandro Sampaoli, Emilia Scatigno – costituisce il vero cuore pulsante dello spettacolo. Stein affida agli attori l’intero peso del racconto: corpi e voci che modellano le variazioni emotive, la recitazione è di qualità teatrale alta, attenta ai dettagli vocali e alle micro-contraddizioni dei personaggi, ritratto grottesco e al contempo struggente di un’umanità sospesa tra comicità e disagio interiore.

Maddalena Crippa rende Elena Ivanovna Popova – intrappolata in un lutto che è più convenzione sociale che sentimento reale, tra rigidità formale e desiderio represso di vita – con estrema raffinatezza: non già caricatura della vedova isterica, ma donna in bilico tra fedeltà al ruolo e bisogno di liberazione. Le sue variazioni vocali – dal tono acido al registro vulnerabile – accompagnano bene la trasformazione da chiusura a passione improvvisa, dal sarcasmo alla vulnerabilità, anche attraverso magistrali modulazioni del volume, dal pianissimo al fortissimo.

Di Grigorij Smirnov (“l’orso”) è interprete Alessandro Sampaoli che porta al personaggio, proprietario terriero ruvido e arrogante, ma in fondo anch’egli vittima di una vita di frustrazioni, una fisicità energica, capace di passare dal registro farsesco al duello verbale serrato, con una presenza scenica vigorosa, il contrasto con Crippa produce un’alchimia comica che sfocia in un finale credibile pur se sorprendente.

Sergio Basile ne L’Orso è Luca, il servitore, figura di contorno ma significativa, che rappresenta il buon senso domestico e il distacco ironico dai drammi dei padroni: l’interprete dona al personaggio una tenera leggerezza che punteggia l’azione e incornicia il duello tra i protagonisti; ma è pure Stepan Stepanovič Čubukov ne La domanda di matrimonio, padre affettuoso e opportunista, pronto a concedere la figlia purché il matrimonio porti vantaggi pratici, passando quindi dalla malinconia servizievole alla vivacità un po’ falsa di un personaggio irascibile e interessato, dimostrando versatilità e controllo del ritmo farsesco.

Gianluigi Fogacci si assume il rischio del monologo di Ivan Ivanovič Njuchkin dominando la scena con un’interpretazione di grande misura, alternando l’eloquenza impostata del conferenziere al balbettio intimo dell’uomo oppresso dalla moglie: la sua recitazione è un perfetto esempio del “comico triste” cechoviano tra frustrazione e smarrito senso di fallimento.

Natal’ja Stepanovna, figlia nubile, emotiva, capricciosa, pronta a litigare su ogni dettaglio ma in fondo desiderosa di sposarsi, ne La domanda di matrimonio s’incarna in Emilia Scatigno che restituisce la comicità della giovane donna con energia: gestualità rapida, voce incalzante, un’interpretazione che sfrutta l’esagerazione senza mai perdere precisione.

Alessandro Averone, infine, è un perfetto Ivan Vasil’evič Lomov, pretendente ipocondriaco e litigioso, che invece di dichiararsi scatena un’infinita serie di discussioni, offrendoci lo stupefacente ritratto di uomo fragile e nevrotico, il cui corpo e la cui voce sembrano perennemente sul punto di cedere: il ritmo serrato dei suoi battibecchi con Scatigno e Basile crea momenti di grande comicità, ma anche un’immagine inquietante di inadeguatezza.

Alla fine, molti gli applausi per tutti: finito il riso, passato il fragore del battimano, incamminandoci lentamente verso l’uscita, resta il silenzio. E quel silenzio – sottile, sospeso – è probabilmente la traccia più vera che lo spettacolo lascia.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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