
La figura mitologica dell’unicorno assume nel corso della storia differenti connotati nelle diverse culture, sia per l’aspetto che per la percezione che le persone avevano di loro.
Secondo Borges e la sua zoologia fantastica, nella cultura occidentale l’unicorno aveva il corpo simile a quello di un cavallo, la testa di un cervo, le zampe di un elefante, la coda di un cinghiale e un corno sulla fronte nero, lungo quasi un metro. Mentre in quella orientale l’animale si presenta con il corpo di un cervo, la coda di un bue, gli zoccoli di un cavallo e sulla fronte un breve corno di carne. I due unicorni non differiscono soltanto per l’aspetto, ma anche per il carattere e il significato. Per gli occidentali era un animale estremamente feroce e aggressivo, mentre in oriente è visto come un animale portafortuna, insieme al drago, alla fenice e alla tartaruga.
Secondo Leonardo da Vinci esisteva un solo modo per catturare un unicorno, ovvero sfruttando il suo istinto sessuale. Gli si metteva davanti una giovane vergine, al che lui per il desiderio impellente dimenticava di attaccare e posava la testa sul suo grembo, e solo così poteva essere catturato. Il significato del corno è chiaro.
Nel medioevo questa unione verrà ripresa per comporre una serie di arazzi fiamminghi, noti oggi con il nome de La dama e l’unicorno.
Da questi prende spunto lo spettacolo A mon seul désir, andato in scena al Teatro Fabbricone di Prato all’interno del festival Contemporanea 2016. La performance del gruppo francese Gaëlle Bourges, incentrata sul concetto di verginità, si interroga sul significato di fondo della coppia vergine/unicorno degli arazzi. Simbolo di castità o allegoria del desiderio carnale?
I due principi antitetici castità/desiderio si rincorreranno sulla scena per tutta l’opera. Le quattro attrici, completamente nude, una volta finito di agghindare la trama dell’arazzo (un fondale rosso) con dei fiori, passano all’imitazione degli animali rappresentati sul pannello, con maschere di leone, scimmia, coniglio, uccello e unicorno. Le 6 scene impresse nelle antiche opere vengono riprodotte, con una dama riccamente abbigliata (ma seminuda) di fianco all’unicorno e agli altri animali, mentre una voce, in stile audioguida museale, illustra i pannelli. Un quadro, quello che si va componendo e scomponendo sotto gli occhi degli spettatori, tranquillo e prevedibile, finché la dama, cornamusa alla bocca, come un’incantatrice, fa calare il fondale a terra, aprendo le porte su una coreografica orda di infoiati coniglietti (e conigliette). Nudi, obviously.
Uno spettacolo concettualmente iconoclasta, pronto a scalfire il ritratto della purezza per “mettere a nudo” il volto famelico di una celata libidine animalesca. Un’iconografia che pecca nella sua minimale architettura di eccessiva vanità, con movimenti ed ostentazioni reiterate. L’interessante idea iniziale si spegne in superficie come un cerino alla prima folata di vento e non riesce ad andare oltre l’abusata nudità. Peccato.
Le forme delle quattro attrici (valide e armoniose) e di una ventina di allievi-attori (coraggiosi esibizionisti) che dietro una maschera da conigli danzano un’improbabile coreografia, sono le immagini che rischiano di rimanere impresse più della rappresentazione stessa.
Ma la sola nudità può sorreggere l’intera impalcatura di un’opera? E può rappresentarne ancora un valore? Forse sì, almeno in termini di richiamo sul pubblico.