Liolà: mito d’astratta leggerezza

In scena fino al 30 ottobre al Teatro San Ferdinando di Napoli l'opera pirandelliana firmata Arturo Cirillo

[rating=3] La prima cosa che vedi, quando le luci si spengono in platea (tutto pieno, stasera alla prima della Stagione, il teatro San Ferdinando, e soprattutto di giovani: molto bene), di questo riuscito Liolà di Pirandello messo in scena da Arturo Cirillo, è la schiera delle donne in fila – rivelata dalla luce che lascia ancor buio il fondo della scena – che meccanicamente ripete il movimento delle mani imitando lo schiacciar delle mandorle, mimare lento e greve che ti ricorda l’ossessivo gesto della catena di montaggio di chapliniana memoria. Piuttosto che frutto di nevrotici tempi moderni, la scena ti sembra però – la movenza stanca e straniata, le scarse luci che attendono l’alba piena, la lauda alla madonna addolorata – annuncio d’una vicenda che si dipana al di là del tempo e dello spazio, e la sensazione verrà confermata, tra poco ne avrai piena consapevolezza, dalla scenografia che intravedi nello spazio ancor nero, visione d’uno stilizzato campo di papaveri coltivato a cielo e danaro, astratta rappresentazione di tempi (eterni e mitici) e spazi (la terra retaggio morale di chi la coltiva e la fa fruttare) che rispondono in pieno a ciò che sta alla base dell’opera di Pirandello.

Liolà

La lettura di Liolà, dunque, da parte di Arturo Cirillo, centrata sull’eterno ricorrere degli archetipi, libera del tutto da ogni vincolo naturalistico o addirittura veristico, è autorizzata dai mille possibili modi di metterla in scena che si sono succeduti nel corso dei suoi cent’anni di vita: testo misterioso, è in fondo questo, che pone, di fronte a chi si accinge all’ardua impresa d’interpretarlo, una gamma vastissima di possibilità, simbolo quasi, esso stesso, nella sua più intima essenza, dell’implacato umorismo dell’Autore, che senti quasi alle tue spalle sorridere sornione. Così, nell’uno, nessuno e centomila possibili modi di leggere Liolà c’è chi s’è spinto fin nei territori della farsa estrema, contando – e come dargli torto – sul consumarsi sornione e sardonico della beffa caustica ai danni di don Simone e Tuzza e zia Croce: sfiorando addirittura il musical, certe volte, profittando della presenza così pregnante del canto e della musica, soprattutto magari scegliendo come interprete qualche cantante-attore di gran grido; oppure no, altri – sempre legittimamente – si sono spinti nel mondo più propriamente pirandelliano del gioco delle parti, sottolineando l’equilibrismo artatamente ambiguo delle situazioni e dei ragionamenti; come dimenticare, poi, la lettura veristica o addirittura (oggi la chiameremmo) etnica, che trova ragion d’essere nell’aver scritto il testo originario, l’Autore, nella dolce lingua di Girgenti, che, a dir suo, cosa del tutto diversa è dal siciliano, salvo poi scontentar gli spettatori nel finale, privo com’è sia del matrimonio riparatore sia della coltellata sanguinolenta e risolutrice, com’ebbe a notare argutamente (poteva esser diversamente?) quel critico d’eccezione che fu Antonio Gramsci, presente alla prima e che ne dette testimonianza sulle colonne dell’Avanti.

Liolà

La modalità di questo allestimento, la sua perfetta cifra, servita a meraviglia dalle musiche di Paolo Coletta, belle senza mai essere invadenti e travalicare il limite di servire il testo senza soverchiarlo, catapulta invece d’improvviso la vicenda – e noi con essa – in un mondo assolato e siccitoso, in cui i prati fioriti servon sì, al rincorrer delle madri le figlie a balzelloni; ma, pure, diventan d’improvviso letto verticale su cui dormono le coppie che sogliono volersi bene – e nel volersi bene preparano e covano e (perfino) sognano acerbe vendette. In questo mondo il Liolà che Cirillo ci presenza (un mattatore Massimiliano Gallo signore e padrone della scena), dell’essenza di poeta contadino sceglie di dar più spazio alla parola e al canto piuttosto che alla rudezza della vanga e della terra: è, anch’esso, figura stilizzata, pura idea di Liolà, che si trova a calpestare, più che la nuda terra bruna, un riflettoso assito dorato, ciò che rimane dell’idea di terra una volta che ne abbiamo rimosso l’artificio dell’erba e dei fiori, schietta astrazione da mondo iperuranio.

In questo mondo i tre cardelli di Liolà hanno ben messo le ali, Tinino, Calicchio e Pallino (Emanuele D’Errico, Antonia Cerullo, Francesco Roccasecca) son quasi pronti a lasciare il nido, già privato della figura femminile – di zia Ninfa, che nel testo s’accolla di crescere di virgulti, infatti, traccia non c’è più in quest’allestimento. La scomparsa della madre di Liolà (morta, assente, non si sa) se è vero che da un lato isola “maggiormente la figura di Liolà” come nota il regista, dall’altro ne accentua le caratteristiche del protagonista di ragazzo padre che accetta (l’accetterà anche per il figlio di Tuzza, alla fine), di accollarsene crescita e formazione, rendendolo d’un tratto estremamente moderno, figlio della nostra contemporaneità: certo Pirandello non avrebbe mai potuto scrivere questo, un po’ perché obiettivamente troppo in avanti coi tempi suoi, un po’ perché rinunciare alla Madre (al solo genuino ruolo che l’Autore sa attribuire alla donna), sarebbe parso veramente il colmo per lui. In verità, sia la perdita di zia Ninfa, sia la maggior età dei cardelli trovo costituisca un punto debole, nelle scelte del regista, fino a ingenerare il sospetto (a pensar male si sbaglia però certe volte a ragione) che quest’espediente sia dovuto alla necessità di lasciar spazio ai tre – pur bravi – giovani allievi del secondo anno della Scuola del Teatro Stabile di Napoli.

Liolà

L’altra metà del cielo è rappresentata prima di tutto da Mita (Giorgia Coco), imprigionata fin dall’inizio e per tutto il tempo delle pièce nel bozzolo bianco della sposa illibata, quasi una crisalide da cui l’avremmo vista con piacere uscire definitivamente una volta resa madre, archetipo della moglie cristallizzata per l’eternità nel ruolo suo, che schiaccia e annulla definitivamente la persona. E così la madre Croce e la figlia Tuzza (bravissima Milvia Marigliano e Giovanna Di Rauso), tutte tese a ordir la trama per definitivamente imbrigliar la roba, disegnano un riuscito pas de deux sull’essenza della donna in Pirandello, ove non c’è spazio mai per il cuore e per l’amore, forse sì, per le convenienze e le apparenze: maschere nude colte nella tipicità degli atteggiamenti; e ben ci sta pur qualche vago accento partenopeo, che, anzi, accentua il carattere universale della rappresentazione.

Così pure delle altre donne, variegato mondo femmineo che ruota intorno ai pochi personaggi maschili del dramma: da Carmina la Moscardina (ottima Sabrina Scuccimarra) a Comare Gesa (Antonella Romano), fino alle tre ragazze canterine, Ciuzza, Luzza e Nela (Viviana Cangiano, Valentina Curatoli, Giuseppina Cervizzi), al di là dell’apparenza spensierata dell’allegro rutilar di gonne variopinte, in realtà ne comprendi a poco a poco l’intima e più vera essenza di figlie d’un dio minore, rassegnate alla condizione loro d’inferiorità, costrette nella libertà dalla benevolenza del maschio di turno.

Liolà

Ed è il maschio, benché vecchio, molliccio, debole e (presunto) impotente, a risultare alla fine il vero protagonista: un Arturo Cirillo che lavora per sottrazione pur non esitando a mostrare la violenza a volte sottaciuta, sedata, omertosa, del personaggio, è uno zio Simone convincente e compiaciuto, vero servo della roba, ossessivamente teso dall’inizio alla fine affinché essa, la roba, trovi indivisa un nuovo padrone, al di là di ogni logica, etica, sentimento. Nonostante tutto è lui il vero vincitore: lo sai perché la coltellata di Tuzza, lo sgraffio finale che con moraleggiante umorismo pirandelliano chiude il terz’atto, stavolta forse è andato a segno e Liolà cade e si rianima più d’una volta, lasciando il pubblico nell’ambigua incertezza dell’effettiva gravità del danno; lo sai soprattutto perché, dopo tutto l’intero ruotar degli eventi, vedi ripigliar le donne il lento e greve movimento delle mani, tal quale l’inizio, meccanico e quasi naturale riprendere il ciclo delle cose, come non abbiano inciso, le povere esistenze degli uomini, l’effimere cose loro, le vane preoccupazioni e ansie, sul destino eterno del mondo.

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