
Come una crisalide, pian piano esce alla luce, Jennifer, liberandosi dei vestiti maschili che utilizza per il fuori, cuticola inerte e opaca che, oscura e rigida, l’opprime, offrendo in cambio, tuttavia, sicurezza e protezione; si riveste, allora, nel contrasto della penombra, di luce e colore, d’ali leggere che svolazzano sovrane e indifferenti fra “l’orribile kitsch dei mobili e dei soprammobili affastellati nell’appartamento”. Siamo all’incipit dell’idea scenica che Daniele Russo interprete e il fratello Gabriele Russo regista hanno messo in atto qui al Teatro Bellini di Napoli, inaugurando la Stagione, del capolavoro di Annibale Ruccello, Le cinque rose per Jennifer, opera prima della Trilogia da camera, drammi della solitudine e della claustrofobia opprimente delle quattro mura in cui rinchiudere le proprie paure e insicurezze.
Qui i fantasmi della mente possono d’improvviso prender corpo, animarsi di propria vita, rappresentare inesplorate quanto detestate parti del nostro io, o, al contrario, cedere le ben munite mura delle nostre difese al mondo ostile del fuori, che implacabilmente dilagherà nell’ombra finora amica dell’anima, violenterà i pensieri e le carni, nel gioco estetico obliquo e sghembo e tuttavia potentissimo e perfetto – come in Mozart non c’è una nota di troppo, non una di meno – della scrittura sorprendentemente – e insieme – ambigua e trasparente che sempre caratterizza l’autore stabiese, e che lo fa grande. Di qui l’esigenza dei fratelli Russo, di “non sovrascrivere” alcunché, se mai, invece, di “scavare”, nella racconta di colloquiali e impervie solitudini, spaesamenti attoniti e silenziosamente bui, alla ricerca, come Diogene alla luce d’una improvvisata lanterna teatrale, parole inghiottite, amputazioni feroci delle proprie radici, ancora immerse, come in una nebbia agnostica, nel non felice ricordo del Sud che è insieme mito e maledizione, rimpianto e rimorso per un peccato originale forse mai commesso.
Ne intravediamo qualcosa sullo sfondo, di quella come sempre innominata città del Sud, all’epoca appena violentata dal terrae motus, palazzi alti e inviolabili come mura di cartapesta, presepe dell’orrido e dell’inconoscibile, nell’ombra indistinta della scena disegnata da Lucia Imperato, città senza luci e senza misericordia, buia e ostile al di là d’ogni possibile confidenza e speranza. Così il telefono e la radio, la tecnologia più avanzata che permette agli uomini di comunicare – in Week end e Notturno di donna ci sarà anche la televisione – diventano tuttavia, invariabilmente, infallibilmente, beffardamente, seri ostacoli alla conoscenza e alla comunicazione non servendo ad altro che ad alimentare solitudine e solipsismo.
Fu, in tutta evidenza, profeta, l’Autore, vissuto in un tempo in cui non eravamo ancora satolli di possibilità comunicative e in cui, per contrappasso, naufraghiamo miseramente nel grande oceano del mondo intero a nostra disposizione: per quanto ne sappiamo, là fuori non abita nessuno, le voci al telefono sono di sconosciuti, non ci raccontano nulla se non altre solitudini che, per caso, in virtù di interferenze che agiscono secondo inconoscibili ed astratti disegni, incrociano la nostra. L’unica voce, invece, che vorremmo ascoltare, la chiamata per cui non siamo usciti di casa da tre mesi, l’amore che si sogna e il sogno dell’amore sempre aspettato, l’attesa incondizionata dell’evento risolutore della vita, la telefonata unica e vera non giungerà mai fino a te, come il mitico messaggio dell’Imperatore, lo sappiamo noi, lo sa Jennifer, “ma tu stai seduto alla tua finestra e ne sogni, quando scende la sera”.
Non bastasse l’opprimente senso kafkiano e la vertigine dell’assoluto nulla in cui ci ritroviamo immersi come aggrappati ad un’isola, la radio, che resta sempre accesa, la vecchia e ingombrante radio a valvole, fa da tramite con il mondo esterno che invia con cadenza regolare sinistri messaggi d’avvertimento, come in un vecchio film dell’orrore in bianco e nero: un maniaco è all’opera “nel nuovo quartiere dei travestiti”, l’assassino uccide con “un colpo di pistola sparato barbaramente in bocca alla vittima”, lasciando, a mo’ di firma, come certi serial killer da telefilm amerikano, “cinque rose rosse sul corpo”; sarà un caso che Jennifer abbia appena comprato, per il suo Franco di cui aspetta invano la telefonata, proprio cinque rose rosse che ora si trovano in un vaso sul tavolo grande al centro della stanza?
E poi c’è, naturalmente, trasmessa da una “radio libera”, la musica a dedica, le canzoni, le canzonette, come si diceva allora, che sono ben più di una colonna sonora che accompagna, più o meno piacevolmente, il “grottesco e patetico strip-tease” iniziale di Jennifer con La bambola di Patty Pravo o l’addobbarsi “in un lunghissimo e rutilante abito nero” (i costumi sono di Chiara Aversano) con la già vecchia allora Quattro vestiti di Milva. Perché le canzoni altro non sono che sostituto dell’anima, surrogato di poesia, bellezza pronta al consumo: le smanie del viver soli, insofferenze d’una vita di cui già s’intravede procedere un lento autunno, inconfessate voglie di mani che accarezzino, pensieri lunghi lunghi vaganti nell’imbrunire dei primi tepori del maggio che avanza, si concretizzano, trovano pace e senso nell’ascolto taciturno di canzoni, sempre cantate da donne, che raccontano fantasie d’amori romantici.
Il geniale stabiese – son sicuro che, fosse vissuto anche solo qualcosa in più dei suoi troppo pochi ventisett’anni, oggi lo avremmo tutti salutato come il più grande drammaturgo italiano nostro contemporaneo – costruisce allora sul personaggio di Jennifer, sulle sue esibite voglie di trasformismo del corpo e della realtà un complesso tessuto drammatico composto da molteplici piani narrativi e attonite descrizioni di sradicate (sur)realtà: drammaturgia – come diceva lui – dei corpi, piuttosto che dei contenuti, dei linguaggi e delle forme, piuttosto che dei concetti. Partitura, dunque per parole e carne, musica più che verbo: a questa musicalità minimale e “scassata”, Daniele Russo presta la sua faccia, il suo corpo, la sua maldestra aggressiva ironica malinconica fisicità, in un percorso obliquo che sempre ad altro rimanda, che non ha significanti che non siano evanescenti ed equivoci, nebbie di sogno che, pur nella logica onirica, provocan lo stupore, il riso, il pianto di Jennifer e del pubblico insieme.
Salta di luogo in luogo, il dipanarsi della tragedia, di livello in livello, ricordando ciò che s’era voluto dimenticare, rivivendo in qualche telefonata il dolore di violenze subite, di gratuiti disprezzi, di sfiduciati affidi, insieme alle canzonette, agli appuntamenti e ai sentimenti, mina e ornella e romina, quasi conflati insieme, in un crescer progressivo del ritmo e del pathos, passando dal tono leggero e vacuo alla tragedia ch’avviluppa la protagonista in interminato vortice. Così, il tappeto ad alto pelo, il canapè dove stendersi in posa ferina, la toilette dove trasformarsi – ironia nell’ironia – come un attore che si prepara alla scena di fronte allo specchio dei propri pensieri – le buone cose di pessimo gusto – diventano allora teatro dell’anima di Jennifer, luogo del ricordo, di volta in volta, di passati amori, lontani pianti, sconcertate emozioni ormai rimosse.
Il kitsch di Jennifer è, in nuce, ciò che sarà la parabola della lingua nelle opere successive: terribile, aspro, ripugnante, è il mezzo di cui l’autore si serve per descrivere il degrado della contemporaneità, raggiungendo vette mai toccate da altri cogliendone tuttavia la valenza di potente arma per vincere la solitudine, mostrando come sia fascinosa l’illusione che utilizzando il linguaggio omogeneo e uniformato della televisione, delle canzonette, si possa rompere l’isolamento, l’emarginazione, il disprezzo, guadagnando fiducia su un piano diverso, e diversamente abitato. In tutti i suoi lavori, la contaminazione della lingua non è mai limitata a mera descrizione d’uno stato di fatto, semplice testimonianza della corsa discendente verso il basso e della rovina: il degrado delle cose e della parola genera – nella finzione enfatizzata, nel trasformarsi gratuito e generoso delle persone e delle cose, nell’arte teatrale del travestimento – l’evitamento del dolore, almeno per un po’, la concessione misericordiosa di una pausa, la possibilità di una vittoria, benché effimera, sul vuoto e sull’angoscia.
Anche perché c’è Anna. Anna, interpretata con pari maestria da Sergio Del Prete, è un altro travestito che abita vicino che, secondo copione, irrompe sulla scena intorno alla metà della pièce, anch’essa infastidita e preoccupata dalle interferenze telefoniche, perché in attesa d’una importante telefonata. Personaggio oscuro e fortemente ambiguo, umbratile e taciturno in contrapposizione e contrasto alla luminosa e colorata Jennifer, Anna è presente, per scelta registica, fin dall’inizio sulla scena, si aggira silenzioso, inquietante, circospetto, suggerendo con chiarezza, come sempre avviene nel teatro di Ruccello, una commistione tra io e altro, tra dentro e fuori, tra sogno e realtà; così, le fragili barriere che proteggono il nostro io possono liquefarsi improvvisamente, compiersi irreparabile l’irruzione del fuori, l’angoscia diventare insormontabile.
C’è sempre un preciso istante, nei testi di Annibale Ruccello, in cui è possibile percepire lo scatto, la modifica improvvisa e repentina del punto di vista, l’inattesa trasformazione dell’ordinaria cronaca del routinario disagio nevrotico nello spalancarsi, apparentemente inaspettato, dell’abisso: cade la maschera, un brivido corre su per la schiena e l’inferno si rivela, e ciò che, in fondo in fondo, già sapevi, pur se non emerso ancora a livello di coscienza, prende inopinatamente corpo, s’attesta e si costituisce come ulteriore livello di conoscenza e, insieme, di contradditorietà. Avviene, insomma, ciò che purtroppo t’aspetti ma che in cuor tuo t’auguri non debba accadere: speri, cioè, abituandoti, in qualche modo, come ad una droga, all’alterazione nevrotica e anancastica dei rapporti umani, descritti in una prima parte, che assume tutto sommato i caratteri perfino banali, ironici, a tratti finanche comici d’una chiusa inquietudine, illudendo te stesso e confidando in un improbabile acquietarsi delle acque, in moto apparentemente tranquillo, speri, dicevo, tu possa farla franca e risparmiarti il salto, l’immersione nell’orrido, nel sangue, nella morte che attende acquattata negli angoli bui.
Il suono di passi nel buio, un rumore aritmico di zoppìa, angosciante come quello d’Imparato, padre/madre di Adriana del Notturno, annuncia la tragedia: è Anna armata di coltello, dunque, provi a concludere, il misterioso maniaco che uccide con un colpo in bocca i travestiti, o è la stessa Jennifer che, grazie all’ennesima trasformazione in prostituta, si aggira per il quartiere in cerca di vittime? O, ancora, il demone armato abita inquieto l’animo nostro, pronto a uscire, quando si fa buio, quando l’angoscia ti soffoca, quando la notte t’ingombra occhi e spirito? Poco prima del colpo di pistola ultimo, poco prima degli applausi prolungati, liberatori, catartici, poco prima dell’ultima, “stupida canzonetta di Orietta Berti”, si chiude, nel buio, lentamente, il sipario, come una crisalide.