Da Cavalleria rusticana a La voix humaine: viaggio nelle solitudini

Al Teatro Petruzzelli di Bari in scena "Cavalleria rusticana" e "La voix humaine": evocazioni, solitudini, amori, vendette

È inevitabile: quando si assiste, come in questo caso, qui al Teatro Petruzzelli di Bari, a uno spettacolo multiplo, ineludibile comincia il giochino mentale delle differenze e delle somiglianze. Cos’hanno in comune – o, inversamente, se preferite, in cosa differiscono – Cavalleria rusticana riproposta, tra l’altro, in chiave registica ipertradizionale dall’attenta e intelligente regia di Michele Mirabella, e La voix humaine di Francis Poulenc per la regia ipercontemporanea e appassionatamente nevrotica di Emma Dante? E dal punto di vista musicale, il direttore Renato Palumbo, di cui ben conosciamo professionalità e sensibilità, come avrà trattato l’incandescente materia?

Certo è passato il tempo dell’accoppiata classica del teatro verista, in cui Cavalleria rusticana veniva, con ovvietà lapalissiana, proposta invariabilmente insieme a Pagliacci: l’operazione finiva inevitabilmente per accentuare in tal modo il comune stampo verista, ma per eliminare, di fatto, a causa di uno scontato effetto di presbiopia, diversità e non perfettamente visibili originalità. E poi, perfino per l’opera lirica e il suo pubblico, in apparenza da sempre e per sempre cristallizzato sulle stesse identiche posizioni, il tempo, invece, dimostra di non passar invano, le certezze di ieri non son più così scontate, Carmen, tanto per non far nomi, non è più l’opera dell’orgoglio femminino, il politically correct ci fa vedere nella predestinazione di un destino da vittima della protagonista, così comune nel melodramma da diventar proverbiale, il femminicidio che ieri davamo per scontato.

Così ci è facile vedere oggi, anche attraverso due lenti colorate in modo totalmente diverso, che la “vecchia” Cavalleria e la “nuova” Voix altro non ripropongono se non la stessa solitudine femminile, lo stesso perverso meccanismo che, sia nell’estrema periferia dello sperduto villaggio nel deserto dell’assolata Sicilia interna sia al centro del mondo, nella camera esclusiva dell’hotel parigino, porti comunque alle stesse conseguenze di isolamento e segregazione, tra gli omertosi paesani o tra i fantasmi allucinati del desiderio e dell’angoscia, vittime entrambe, Santuzza ed Elle, dell’identica visione maschilista che ha attraversato la nostra storia e la nostra cultura fino a tutto il secolo breve.

Si comincia, quando il sipario si alza, con La Voix humaine, opera insolita sottotitolata “tragédie lyrique”, che andò in scena dieci anni dopo Dialogues des Carmélites. Francis Poulenc compose questo monologo lirico per Denise Duval, la sua cantante preferita, che incarnò l’unica protagonista del monologo sotto la direzione di Georges Prêtre, con la messa in scena e la scenografia di Jean Cocteau, l’autore della pièce e del libretto, a Parigi all’Opéra Comique il 6 Febbraio 1959. Come scrisse Fedele D’Amico in occasione della prima italiana a Milano, alla Piccola Scala, il mese successivo, «resta la definizione di una persona umana individuata attraverso una voce fisica e realizzata da una interprete straordinaria: come succedeva ai bei tempi del resto, perché la più gran parte dei grandi operisti scriveva sul modello di cantanti con tanto di nome e di cognome».

Mettere in musica il monodramma del suo amico Cocteau, in cui il telefono diventa il personaggio principale di un dramma sentimentale, costituì una prova di forza e coraggio straordinaria per il compositore: si trattava della non facile impresa di mantener desto l’interesse durante il lungo monologo di una donna lasciata dal suo amante che cerca di riconquistarlo con una conversazione telefonica che spesso s’interrompe per problemi tecnici. Precedenti non ce n’erano, tranne il tentativo di Arnold Schönberg dell 1924 con il suo monodramma Erwartung, un altro monologo di una donna in cerca del suo amante.

Occorrevano soluzioni musicali nuove, del tutto originali, per rendere a un tempo credibile e fascinosa questa dissezione senza precedenti della denuncia dell’amante indirizzata a un interlocutore invisibile, questa passione spogliata di tutto tranne che del canto. Delle 780 battute della colonna sonora, 186 sono scritte per la sola voce: Poulenc voleva dare alla canzone la stessa libertà del discorso parlato, favorendo un’orchestrazione trasparente che lascia scoperta la voce, favorito in questo dalle frasi corte e incisive di Cocteau che imprimono ai sentimenti un ritmo e una drammaticità, pronte solo ad esser rivestite dalle note musicali.

La curva melodica abbina tutte le emozioni che lacerano l’eroina: amore, odio, brutale disperazione, rimpianto, più che all’avanguardia Poulenc si ricollega alle tradizionali donne di Massenet. L’ambiguità tonale esprime lo squilibrio nato da questo “dolore inciso nelle fibre dell’opera”, secondo Denise Duval, la creatrice del ruolo, amplificando, l’orchestra, l’intensità drammatica propria del canto e assicura unità emotiva con l’uso di motivi ricorrenti. Interpreta quindi il ruolo dell’amante assente suggerendo il tenore delle sue risposte che punteggiano il recitativo tormentato dell’eroina. Il compositore indica che “l’opera dovrebbe immergersi nella più grande sensualità orchestrale”. Chiaramente il suo successo si basa sulla dizione e sull’impegno emotivo della cantante, che “deve aver sofferto di aspettare invano per poter svolgere questo lavoro di sofferenza vissuta” (Denise Duval).

La scena qui al Petruzzelli, concepita obliqua e sghemba da Carmine Maringola, la scopriamo volutamente ingannevole, dotata com’è di una insita drammaticità sua propria, in cui le pareti impercettibilmente, lentissimamente, si avvicinano tra loro e al soffitto, un movimento che finisce per essere direttamente proporzionale al lievitare sottile della tensione del climax nevrotico fino a chiudersi, definitivamente, come per l’esecuzione di una sentenza, alla fine della rappresentazione di quella “assordante schizofrenia” di cui parla Emma Dante.

E se le luci di Cristian Zucaro – chiare, giocate sui toni del bianco, del giallo e del rosa, così come la camicia da notte e la vestaglia di Elle e i costumi, ideati da Vanessa Sannino, degli altri silenziosi protagonisti che popolano la serata e la lunga telefonata – finiscono per accentuare, per contrasto, il buio dell’anima, scopriamo pian piano che la stanza elegante non è quella di un grande albergo, come potevamo aver creduto all’inizio, ma di un ospedale e sulle pareti i disegni della texture, che all’inizio erano sembrati un mero decoro, si rivelano beffardamente per ciò che sono, elementi di insonorizzazione, il telefono perde il filo di collegamento, la voce umana, nel suo disperato soliloquio, perde ogni caratteristica di comunicazione, diventa mero suono, voce che grida nel deserto, urlo perso nel nulla e che nulla accoglierà, così come le allucinate visioni dell’anima sconvolta della protagonista.

Lei, Elle, Anna Caterina Antonacci, di fatto sola al centro di questa scena così essenziale ma al tempo stesso così eloquente, esprime come meglio non si potrebbe con la sua voce, la sua presenza scenica, il suo indiscusso fascino, tutta la complessità di questo personaggio unico. La scrittura di Poulenc, l’essenziale declamato che solo a tratti, quasi faticosamente e con riluttanza, si alza in canto, diventa, grazie a questa straordinaria interprete, alla perfetta dizione, alla cura del fraseggio, alla sempre controllata padronanza della voce e del gesto, perfetto esempio di recitare in musica che, sempre, dovrebbe esser caratteristica dell’arte lirica. Così pure gli interventi dell’Orchestra, diretta da Renato Palumbo, riescono perfettamente ad esser ciò che l’autore ha voluto che fossero, perfetto contrappunto della voce umana, traducendo in musica la frattura che progressivamente si viene descrivendo, che è alla base della definizione stessa di tragédie lyrique.

In tal senso il passaggio alla seconda parte della serata è, a ben pensarci, più semplice del previsto, perché anche in Cavalleria questa frattura, questa divaricazione tra dramma e lirica è ben evidente: “Ho chiesto al mio amico e cittadino Targioni-Tozzetti di scrivere un libretto molto vicino all’azione di Verga, aggiungendo semplicemente occasionali brani lirici per coprire il dramma nudo della trama”, ricorderà Pietro Mascagni. “Ho ricevuto i versetti un po’ alla volta, ma avevo già in mente tutta la situazione: mi sono identificato con il dramma a tal punto che l’ho sentito dentro di me in termini di musica”. Il compositore ha ventisei anni, nel 1889, per cinque anni, dopo aver lasciato il Conservatorio di Milano, ha vissuto di oscuri lavoretti: viene a sapere di un Concorso dell’Editrice Sonzogno per il miglior atto unico di nuova composizione. Mascagni si ricorda allora di aver assistito a Milano alla rappresentazione di Cavalleria rusticana, un drammone verista che Verga aveva trascritto da una sua novella per il teatro e per Eleonora Duse, riscuotendo enorme successo: in due mesi completa la partitura, poi, al momento di presentarla, gli vien meno il coraggio e temendo un fallimento, mette la musica in un cassetto, da dove esce grazie alla moglie che provvidenzialmente spedisce la partitura, donando al mondo un ineguagliato capolavoro di passione, di sintesi, d’armonia.

Vinto il Concorso, il 17 maggio 1890 l’opera ebbe la sua prima a Roma, dove ricevette non meno di 60 chiamate al sipario; in meno di un anno era stata eseguita in tutta Europa. Livorno lo (ri)accolse a casa come un eroe; il re d’Italia gli conferì l’Ordine della Corona d’Italia – onore che Verdi non ricevette fino alla maturità. Sulla base di un capolavoro unico e irripetibile, il compositore in difficoltà diventò ricco e famoso in una sola notte. “È un peccato che ho scritto Cavalleria per prima”, disse alla fine della vita, “perché sono stato incoronato prima di diventare re”.

Michele Mirabella traduce quel capolavoro ormai più che centenario con una messa in scena apparentemente del tutto conforme alla tradizione: ecco il disegno affidato alla consueta maestria di Nicola Rubertelli, la chiesa bianca rococò al centro, alta su una ripida scalinata di marmo a tenaglia, la taverna di mamma Lucia sulla destra, sulla sinistra il tavolo sotto la vite per il brindisi, la Pasqua barocca, i veli neri delle donne, la processione, i preti, i carabinieri col pennacchio, i chierichetti, i ragazzini vestiti con gli abiti della Passione.

Tuttavia, al di là dell’apparato ben familiare ad ogni frequentatore del teatro in musica, si avverte una ben diversa, contemporanea consapevolezza: se Santuzza non entra in chiesa perché “scomunicata”, perché isolata nella sua stessa comunità, segregata come in un deserto in mezzo alla folla, tempo è venuto, evidentemente, che si possa dare un ben diverso segno di possibile alternativa conclusione alla vicenda, pur non forzando in alcun modo libretto e tradizione. Per intenderci, non è necessario inventarsi un finale diverso, come pure è successo in una recente, discussa Carmen: nel nostro caso il regista sottolinea l’assurdità della situazione e rompe l’isolamento di Santuzza, esprimendole una muta ma ben solida solodarietà: s’inventa un personaggio di fantasia, una figurante come i carabinieri, la venditrice di fiori, il facchino, ma con una mission ben più alta che il colore locale.

È una donna storpia che lentamente, dolorosamente, faticosamente, attraversa la scena all’alba, durante il preludio, entrando in chiesa, e poi compiendo lo stesso percorso al contrario durante l’intermezzo – e non è un caso, l’intermezzo dei pensieri e della coscienza di Santuzza, sentimento del tempo e, insieme, timorosa ma solida speranza – finisce per consegnare però questa volta, all’addolorata Santuzza, che non ha lasciato la scena, un ramo d’ulivo, un segno di solidarietà che è, insieme, rottura del muro di conformismo omertoso che definisce i rapporti umani all’interno del piccolo villaggio e, pure, sintomo di una diversa sensibilità nello sguardo di chi, al di là della quarta parete, seduto in platea, è partecipe della tragedia che si va svolgendo sul palco.

Così, è consolante e significativo poter aver la prova, nella stessa appagante serata a teatro, di come regie “moderne” e regie “tradizionali” siano pura invenzione di chi non sa di teatro, dove, invece, esistono semplicemente regie belle e intelligenti – quelle di stasera appartengono a questa rara categoria – e regie brutte e stupide, che purtroppo sono ancora molto diffuse. Né da meno è la direzione di Renato Palumbo, che sceglie una sottolineatura ben poco paesana e bandistica della musica di Cavalleria, così bella ma anche così sfruttata da far correre il rischio, alle nostre assuefatte orecchie, d’apparirci scontata e gonfia di falsa retorica: la sua interpretazione è sussurrata, nell’eco del Coro, così ben diretto da Fabrizio Cassi, quasi cameristica, non solo nel canto struggente dell’alba nell’introduzione – dando sostanza, finalmente al tempo è si mormori del verso – ma pure in quello, abbacinato e ditirambico del demone meridiano che abbaglia occhi e sensi, nel brindisi del vino spumeggiante e del bicchiere scintillante.

Ne vien fuori una diversa Cavalleria, o, meglio, la stessa sempre rinnovata, che ritrova toni e timbri originali e puri che furono alla base della sua fortuna, e noi siamo ben contenti di averli ascoltati, ben serviti, oltre che dal Coro attento e controllato, pure dagli interpreti, in media ben più che sufficienti, dall’eccezionalità della voce e del timbro di una pressoché perfetta Carmen Topciu, per nulla ingolfata nei poveri e severi abiti di una Santuzza dalla notevolissima presenza scenica, all’ottima mamma Lucia di Maria Luisa De Freitas, al fraseggio preciso e alla verve scenica di Alberto Gazale, Alfio più che adeguato con qualche eccesso nel gesto, per finire al Turiddu di Walter Fraccaro, giocato molto sulla forza dell’emissione, più che sulle sottigliezze psicologiche. Come è, in fondo, d’ogni Turiddu che si rispetti.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
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da-cavalleria-rusticana-a-la-voix-humaine-viaggio-nelle-solitudini«La voix humaine» di Francis Poulenc <br>Tragedia lirica in un atto, libretto di Jean Cocteau <br>Regia: Emma Dante <br>Scene: Carmine Maringola <br>Costumi: Vanessa Sannino <br>Disegno luci: Cristian Zucaro <br>Elle: Anna Caterina Antonacci <br>Allestimento scenico Teatro Comunale di Bologna <br>Spettacolo in francese con sovratitoli in italiano <br> <br>«Cavalleria rusticana» di Pietro Mascagni <br>Melodramma in un atto, libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci <br>Regia: Michele Mirabella <br>Scene: Nicola Rubertelli <br>Costumi: Giuseppe Bellini <br>Disegno luci: Franco A. Ferrari <br>Maestro del Coro: Fabrizio Cassi <br>Santuzza: Carmen Topciu <br>Turiddu: Walter Fraccaro <br>Lucia: Maria Luisa de Freitas <br>Alfio: Alberto Gazale <br>Lola: Elena Borin <br>Allestimento scenico Fondazione Teatro Petruzzelli <br>Spettacolo in italiano con sovratitoli in italiano <br> <br>Direttore: Renato Palumbo <br>Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli <br>In scena dal 19 al 27 ottobre 2019 <br>Bari, Teatro Petruzzelli, 23 ottobre 2019