
Inghilterra anni Sessanta: un restauratore di nome Tom Keating forgia innumerevoli opere nello stile dei grandi maestri del passato ma in ciascuna di esse inserisce delle “bombe ad orologeria”, ovvero dei dettagli che durante il processo di autenticazione salteranno inevitabilmente fuori, rivelando in maniera lampante che si tratta di falsi.
Cosa c’entra questa vicenda con lo spettacolo “Rohtko” di Łukasz Twarkowski? Molto. Anzitutto, tanto nell’azione irriverente del falsario inglese quanto nello spettacolo dell’artista polacco c’è l’intento di spingere il mondo a ripensare il concetto di opera d’arte. Entrambi sollevano questioni sulla corrispondenza tra originale e copia, sul patto di fiducia tra artista e spettatore, e ancora, sul livello emotivo generato dall’arte. «Può un’opera falsa provocare emozioni vere?» si chiedono le note di regia.

Nel rispondere al quesito, Twarkowski tratteggia una moltitudine di linee drammaturghe intersecate e giustapposte all’interno di un’unica compagine spaziale: dalla vicenda biografica di Rothko al caso mediatico del falso venduto ai coniugi De Sole, da un presente in cui spopola l’arte digitale ai provini per uno spettacolo sull’artista dell’espressionismo astratto, e così via. Questo complesso apparato serve al regista per indagare il tema del doppio e della riproducibilità. Ecco che allora l’azione degli interpreti sul palco – i cui ambienti principali sono due ristoranti cinesi, uno lo specchio dell’altro – viene replicata su tre grandi schermi attraverso la presa in diretta compiuta da due cameramen.
Le strategie narrative dei film si confondono con la specificità del medium teatrale. Il set scenografico sembra un profilmico hollywoodiano studiato fin nei minimi dettagli. Le inquadrature sezionano la scena e la restituiscono ora un un montaggio serrato di campo e controcampo, ora in lunghi piani sequenze che esplorano lo spazio nei suoi angoli più reconditi. Se, però, sullo schermo vediamo un’azione di sintesi filmica istantanea, il palco rivela la macchina scenica in tutti i suoi ingranaggi: i cameramen vagano liberamente, i servi di scena riconfigurano di volta in volta gli spazi, gli attori prendono posizione prima di iniziare la scena. A contribuire a questo spaesamento percettivo dello spettatore sono poi alcuni elementi meta che tradiscono deliberatamente la natura posticcia di ciò a cui stiamo assistendo: i costanti sguardi in camera, i microfoni ad archetto ingranditi sotto lo sguardo delle telecamere, le sequenze di coreografia sincronizzata.

A Twarkowski non basta illuderci con un impianto iperrealistico fino a farci dimenticare di essere a teatro. Lui vuole anche rompere di tanto in tanto quell’illusione. Ecco che allora, proprio come Keating, il regista polacco posiziona nella sua opera delle bombe ad orologeria che ci portano ad aguzzare gli occhi e ragionare sul limen tra vero e falso all’interno della rappresentazione.
Per intenderci, la vicenda biografica di Rothko, la sua passione ossessiva per l’arte e il suo disprezzo per il mercato capitalistico rispondono alla realtà. Così come è ormai pezzo di storia lo scandalo che colpì la Knoedler Gallery di New York, che tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio del Duemila vendette a prezzi vertiginosi numerose opere poi rivelatisi falsi. Eppure, guardando più da vicino lo spettacolo – quasi a voler condurre un’indagine forense – alcuni dettagli non tornano. Gli operatori di scena vestono una tuta bianca sulla cui schiena campeggia una scritta in stampatello: MUESUM, ovvero “museum” ma con alcune lettere invertite. E se vogliamo credere che possa trattarsi di un lapsus innocuo, di certo non possiamo ignorare con altrettanta leggerezza l’errore ortografico nel titolo dello spettacolo, dove la lettera “h” all’interno di Rothko viene spostata indietro trasformando il nome in “Rohtko”. Queste “inavvertenze” riecheggiano in noi tanto più dal momento in cui l’intero patto spettatoriale è stato fondato su un “certificato di autenticità” offerto al pubblico da un enunciato iniziale: «questa è una storia vera sull’arte falsa».

Cosa vuol dire allora “fake”? E cosa significa originale? A contrapporsi, nella densa creazione di Twarkowski, sono due diversi approcci all’opera d’arte: quella occidentale e quella orientale. Come sostenuto dallo studioso Noah Charney, in Occidente il concetto di originale è diventato centrale «dal momento stesso in cui è nato il commercio delle opere d’arte»: il capitalismo vede l’arte come uno status symbol dei ceti agiati, e le attribuisce un valore emotivo o estetico solo in base al suo valore finanziario. Di contro, nella cultura cinese è centrale il concetto di “shanzhai”: traducibile con “falso”, il termine descrive copie che si distaccano deliberatamente dall’originale in un processo di mutazione che li trasforma in opere nuove. L’identità di questi prodotti è problematica in quanto fonderebbe le basi su un nuovo, innovativo modello di economia. D’altronde, in un mondo ben al di là della visione di Benjamin della riproducibilità tecnica e in cui spesso l’opera d’arte è essa stessa intangibile, cosa è originale? Cosa è falso?