Il teatro contemporaneo di Cèsar Brie dà lezioni di regia in “Viva l’Italia”

Un albero dai rami secchi si staglia contro la luna, pallido e moribondo. E’ il nascondiglio preferito di Lorenzo quando sua mamma lo cerca. “Non scendere, io me ne vado Lorenzo”, la mamma amorevolmente lo aspetta, lo prega e poi se ne va, o meglio fa finta di andarsene, non lo vuole lasciare solo, lo vorrebbe proteggere, sempre. Questo spaccato di amore familiare ci fa conoscere Lorenzo fin da piccolo, un ragazzo normale che frequenta il centro sociale, ha idee politiche per le quali combattere e che cadrà vittima di un attentato a Milano insieme al suo amico d’infanzia Fausto. Non appena entra in scena ha già la maglia tutta insanguinata con evidenti fori di pallottola, è morto e ancora non lo sa.

La narrazione non è lineare, ci sono numerosissimi cambi scena che passano da Lorenzo e gli amici che quella sera sono con lui, a sua madre che lo aspetta a casa mentre prepara la cena. Cèsar Brie non lascia niente al caso, nessun tassello della vita di Lorenzo è dimenticato, siamo come presi per mano e proiettati nella sua esistenza, ne facciamo parte.

La scenografia è costituita da due teli, uno bianco e uno trasparente messi fra loro a 45°, e dietro, combinando le bellissime luci dello spettacolo, appaiono vicoli e uomini in penombra, sensazioni di minacce, che poi diventano realtà. Il killer fa fuoco e Lorenzo e Fausto cadono a terra. La mamma sente le ambulanze e diventa ansiosa, corre in strada con la pentola ancora in mano, il sugo che stava cucinando cade per terra e diventa sangue, quel sangue che rimarrà impresso nella sua mente per sempre. Gli oggetti in scena sono tanti e ben studiati, si incastrano magistralmente, diventano spesso qualcos’altro, creano suggestioni sempre nuove e immagini che non potremmo descrivere neanche con mille parole.

Il killer e il commissario di polizia, che hanno appena fatto il loro ingresso sul palco, non sono personaggi secondari, raccontano la loro vita e i loro pensieri, diventano parte della storia, sono analizzati in profondità, e questo è sicuramente uno dei punti di forza dello spettacolo. Le storie di Lorenzo morto, della mamma che non si da pace, del killer che scappa e del commissario che ne segue le tracce si accavallano in un turbinio di emozioni diverse, di inseguimenti, di nuovi morti, di indagini e colpi di scena.

Suggestivo il racconto del funerale tratto dal monologo della mamma comprensibilmente spaesata “[…] Che ore sono? Sembra notte fonda. No, ma lo so che non è notte, ci sta il sole fuori.”, vede il prete che parla ma non lo sente, cerca di scappare ma mille mani la trattengono, mille sguardi la giudicano anche se “la gente mi scansa come se fossi malata”. Anche il killer ci racconta la sua delirante avventura, che inizia nella totale tranquillità della sera prima in compagnia della sua ragazza, poi la partenza in treno da Roma a Milano, dove ha una missione da compiere, “come una gita a scuola”. E’ invasato, energico e sconcertante, deve “vendicare la morte dei camerati”, non ha ideali, esegue meramente gli ordini, l’eccitazione dell’omicidio appena commesso gli provoca perfino un’erezione, “non lo so perché, ma non c’ho paura che ci prendono”. Torna a casa in silenzio “con la mente vuota” dopo aver bevuto una sambuca in un bar! Il commissario, che viene consigliato dal suo capo (l’unico che non viene approfondito e resta, per così dire, senz’anima) di evitare la pista politica e di cercare nel mondo della droga, investiga, domanda e, quando torna a casa pieno di pensieri, viene aiutato dalla moglie a vivere la sua vita e non quella delle vittime delle sue indagini. Anche i giornalisti hanno una parte nella vicenda, le loro parole vengono battute a macchina producendo il classico ticchettio, che però si scopre provenire in realtà dalla pistola del killer stesso, parole come condanne a morte.

La rapida successione di scene, ognuna con le proprie emozioni, è impressionante. Ci si stupisce, alla fine dello spettacolo, di vedere solo cinque attori interpretare così tanti ruoli non sbagliando praticamente niente. Il regista, partendo dal testo molto bello di Roberto Scarpetti, destruttura i cinque monologhi originari, li rende dialoghi, li organizza in scene bellissime, come quella della mamma che piange il figlio pulendo la foto sulla tomba e in realtà pulisce direttamente la sua faccia, o la morte del commissario per incidente stradale, dove un telo di plastica gli si contorce addosso e ci mostra come le lamiere lo imprigionano in un abbraccio mortale.

Uno spettacolo che non si limita a raccontare soltanto eventi di quegli anni di terrore ma ce li fa percepire, ci fa odorare (anche per mezzo dello zolfo della pistola che spara sul serio) la morte dietro ogni angolo e la casualità con cui colpisce. Senza dubbio uno dei migliori spettacoli che vedremo quest’anno.

Cos’è successo in realtà? Lo spettacolo è una “finzione basata sui fatti”, che parte da eventi reali ma modifica la storia di alcuni dei protagonisti (ad esempio il commissario non muore in un incidente d’auto…) ma soprattutto punta l’indice contro una giustizia che ancora non ha dato un volto e un nome agli assassini, con l’inchiesta archiviata per mancanza di prove nel 2000.

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