
[rating=3] Una enorme corona di legno, spezzata in due, sovrasta la scenografia dello spettacolo “Re Lear” al Duse di Bologna. Molte spade conficcate per terra lasciano presagire ciò che è ampiamente immaginabile in una tragedia, cioè che la gente morirà; vederle dal vivo però è sempre fonte di emozione.
Shakespeare nel 1605 prese spunto per scrivere questa tragedia da un fatto di cronaca avvenuto l’anno prima: un nobile proprietario terriero aveva tre figlie, di cui due sposate. Queste ultime cercarono di interdire il patriarca per impossessarsi immediatamente del patrimonio, ma la terza figlia di nome Cordell si oppose, guadagnandosi la fiducia del padre che la nominerà, alla morte, come unica erede. Nel testo, il re Lear abdica prima del tempo, e desidera suddividere il suo regno in tre parti da dare alle sue due figlie sposate e alla nubile Cordelia. Si affida però, nel decretare il pregio e la grandezza dei possedimenti da assegnare, alla benevolenza che le figlie gli riescono a dimostrare a parole, come se l’amore fosse misurabile con esse. Mentre le due sposate lo adulano, Cordelia, la sua preferita e più onesta d’animo, si rifiuta di esternare i suoi veri sentimenti per il padre al solo scopo di ottenere un tornaconto economico, facendolo adirare. Il regno verrà suddiviso soltanto in due parti e Cordelia sarà rinnegata, mentre il re si riserva di tenere una guardia armata di cento uomini al suo servizio e protezione.
La benevolenza e l’amore, così ben professato a parole, non sono seguiti poi dai fatti e ben presto le due figlie invitano il padre a ridurre il suo numero di protettori, colpendolo nel suo incredibile orgoglio. Non potendo riprendersi i suoi possedimenti e nemmeno tornare dalla rinnegata Cordelia, il re si trova solo, smarrito e questo dolore immenso lo porterà alla pazzia.
Nel frattempo l’impacciato Edgar, figlio del conte di Gloucester, calunniato dal fratellastro Edmund, lascia i suoi panni per indossare quelli del pazzo Tom. Anche lo stesso conte cade nella trappola del figliastro, e gli verranno estirpati entrambi gli occhi con l’accusa di alto tradimento. A questo punto i due sventurati si incontrano di nuovo ed Edgar aiuta il cieco padre a salire sull’alta scogliera di Dover, dalla quale desidera suicidarsi. Ovviamente lo salva e inizia a nutrire il desiderio di vendetta nei confronti del malvagio Edmund, che con i suoi complotti non risparmia nessuno, con l’unico intento di diventare il prossimo re. Nello scontro a duello che ne deriverà, il fratellastro avrà la peggio e solo in punto di morte farà la sua unica buona azione: cercare di salvare Cordelia. Non vi riuscirà, e questo ci regala la suggestiva scena finale, con il talamo della defunta Cordelia accerchiato da tutte le persone morte nella tragedia, illuminate da dietro in modo che risultino delle ombre, seppur riconoscibili. (All’epoca Shakespeare subì varie contestazioni per questo finale, che portarono a una versione alternativa nella quale Cordelia non muore e anzi sposa Edgar, il nuovo re d’Inghilterra).
“Diciamo quello che sentiamo, non quello che conviene” sarà il monito di Edgar nel finale, unico sopravvissuto di questa bellissima tragedia.
La scenografia e i cambi scena sono davvero belli, gli attori prendono posto al buio sul palco in attesa che le magistrali luci facciano iniziare la scena in una zona dello spazio, e alla fine dell’azione, rimasti in ombra, si allontanano rimanendo sempre dietro la scenografia, in vista. In questo modo le scene si susseguono rapide, sono molto ben realizzate e la forza dei sentimenti e soprattutto della violenza fisica è ben espressa: le spade sono utilizzate per sonori duelli all’ultimo sangue, le pozioni di veleno fanno contorcere dal dolore le vittime, le storie d’amore sono molto carnali e gli occhi del conte di Gloucester sono estirpati con enormi schizzi di sangue sul palco, una scena un po’ splatter che però rende vera la violenza, mentre spesso a teatro è solo finzione.
Il testo è reso attuale da molti espedienti scenici, come l’entrata iniziale di tutti in abiti contemporanei con la successiva vestizione in scena, il matto di corte che si esibisce in un pezzo rap e il linguaggio non proprio shakespeariano ma moderno, fresco.
Michele Placido, che oltre a recitare ha curato anche la regia insieme a Francesco Manetti, non è risultato convincente fino in fondo, specie nella follia di re Lear, dove passa da rabbia a contentezza a stupore a pietà con un pizzico di “inerzia” di troppo. Lo stesso non si può dire di Francesco Bonomo nella parte di Edgar che, partendo da un ragazzo in maglia a rombi intento a leggere un libro, è poi inseguito e costretto alla successiva trasformazione, letteralmente spogliandosi dei suoi abiti per indossare quelli del pazzo mendicante Tom, sempre risultando molto bravo e vero.
Il gradimento del pubblico non si è fatto attendere per questo spettacolo che, partendo da un testo bellissimo e coinvolgente, ha saputo esaltarne le qualità e inserire la “contemporaneità” in modo intelligente e non forzato.