
[rating=2] Samuel Beckett avrebbe dovuto scegliersi discendenti più coraggiosi. In parte è colpa loro se il “Finale di Partita” di Luiìs Pasqual non ha espresso una rinnovata potenza comunicativa. Gli eredi del drammaturgo irlandese hanno di fatto blindato il testo del ‘57 “costringendo” a rispettare fedelmente la traduzione classica di Carlo Fruttero.
Viene in mente non a caso il Postino Troisi che ammoniva il Poeta dicendo: “La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”.
Finale di Partita viene riproposto fino al 15 febbraio al Teatro S. Ferdinando di Napoli, dopo il debutto al Festival Teatro Italia nel Giugno scorso. Il titolo è ispirato all’ultima fase di una partita a scacchi, quando poche sono le pedine rimaste e la vittoria/sconfitta è già palese, tuttavia lo scacchista dilettante si ostina a giocare nonostante la fine segnata. La dimensione della sconfitta pervade il dramma e unisce i personaggi in un isolamento disumano. Lo scenario è postapocalitto, fuori l’ignoto nulla, dentro timori e ritualità ormai privata di senso. Hamm, il cieco e paralitico padrone di casa, interpretato da Lello Arena, abile ma fin troppo pulito nell’utilizzo dei toni alti, non ha altro piacere che disturbare Clov, i cui panni da operaio sono vestiti dal bravo Stefano Miglio. Nell e Nagg, portati in scena raffinatamente da Angela Pagano e Gigi De Luca sono i genitori di Hamm tenuti segregati in botole separate e ridotti a moncherini. L’unico capace di spostarsi, ma non di fuggire è Clov, condannato a muoversi sempre secondo una legge del contrappasso che vede tutti gli altri immobili.
Scene e costumi firmati da Frederic Amat combinano con la precarietà tragicomica della messa in scena e racchiudono il mondo noto in un laminato di vetroresina.
“Non c’è niente di più comico dell’infelicità” Beckett lo sa e lo svela, ma anche la migliore delle barzellette con l’uso perde ogni stimolo, tanto da far chiedere il perché di “questa commedia tutti i santi giorni”.
La sensazione finale è quella di un’occasione persa, non basta scegliere attori napoletani (ciascuno bravo a suo modo), far trapelare qualche cadenza e paragonare la rassegnata ironia beckettiana all’atavica rassegnazione napoletana per rinnovare in chiave partenopea un testo senza tempo e senza spazio. La parola, un’altra lingua, avrebbe potuto accompagnare il gesto tradendo l’autore come è giusto che accada.