Il Frankenstein di Sollicciano ha un corpo da mostrare

“Si può fare!”, gridava il Dottor Frederick Frankenstein interpretato da Gene Wilder nel leggendario film Frankestein Junior di Mel Brooks, convinto di poter ridare la vita alla materia inanimata, creando il mostro.

Un Frankenstein umoristico e così amato dal largo pubblico, quello di Brooks, tanto da divenire con il tempo, nell’immaginario collettivo, un assioma con il mostro creato originariamente dalla penna di Mary Shelley, più delle prime creature interpretate negli anni ‘30 da Boris Karloff. Una mostruosità che con Brooks sfocia nel comico e nella suprema parodia di quei film gotici, dove il bianco e nero della pellicola rappresenta l’ultimo eco del cinema classico degli orrori.

Non c’è traccia di horror neanche in Frankenstein, Storia di un corpo della Compagnia di Sollicciano, che sotto la regia di Elisa Taddei trova una nuova scia di comicità grottesca.

Frankenstein, Storia di un corpo

Nella sala del teatro del carcere, alla prima nazionale, si respira aria di elettrica attesa negli attori, già in scena, pronti ad iniziare la narrazione, una volta che la lenta masnada letargica di spettatori e autorità si sia accomodata agiatamente in platea, accompagnata da BianConigli in frac.

Sulla scena, una schiera di canuti luminari dal volto bianco, dietro a dei tavoli, confabulano scrutando il pubblico da finissimi occhiali poggiati su nasi aquilini. Di fianco, su di un pulpito si erge la figura di Galileo, che dà il la allo spettacolo, composto da una serie di deliziosi quadri scenici sostenuti da musiche emozionali e contenenti micro coreografie, collegate tra loro da un humour delicato e poetico. Non manca il coinvolgimento del pubblico che viene più volte interpellato, facendolo tornare bambino nel lancio in platea di un enorme pallone-mappamondo, evocando in un unico rimbalzo il dittatore chapliniano e lo snowshow di Slava.

Frankenstein, Storia di un corpo

All’appello non mancano uno squilibrato Dottor Frankenstein e la sua creatura, con il corpo segnato da tatuaggi anziché cicatrici, tratti indelebili che raccontano storie sottopelle, moltiplicatori di mostri che celano volti umani dietro la maschera.

Uno spettacolo armonioso, che indaga con semplicità l’animo umano e il corpo dei propri interpreti, in una pièce metaforicamente espiatoria. Sotto la luce dei riflettori i 24 detenuti-attori si donano al pubblico, manifestando la necessità extra attoriale di “essere” in scena.

Frankenstein, Storia di un corpo

Elisa Taddei disegna una regia emozionale e misurata, senza sbavature i quadri si intrecciano l’uno nell’altro, in un telaio imperniato di comicità surreale. Non mancano spunti di riflessione sui limiti oltre i quali la scienza e la chirurgia non debbano spingersi, per ricostruire un corpo formalmente perfetto.

Un lavoro attoriale ben definito e completamente diverso da quello che siamo abituati a scorgere tra le sbarre del carcere di Volterra, dove da 25 anni la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo porta l’arte del teatro in uno spazio così alieno (leggi le recensioni di Hamlice e Mercuzio non deve morire).

Frankenstein, Storia di un corpo

Un progetto polivalente che ha coinvolto alcuni allievi del Liceo Artistico di Porta Romana di Firenze, impegnati nella costruzione del fantoccio di Frankenstein in materiale riciclabile, che dai suoi due metri accoglie gli spettatori. Ottime anche le maschere da coniglio e quelle della creatura,  che danno un tocco fiabesco all’atmosfera.

Spesso assistiamo a spettacoli che non sono altro che vacui contenitori imbottiti da altisonanti nomi di attori o autori, oltre ciò il niente.

Frankenstein, Storia di un corpo

Consci che “si può fare” teatro solo attraverso ricerca, passione e necessità di raccontare qualcosa, usciamo dal carcere di Sollicciano soddisfatti. Il risultato tradotto è un teatro generoso, che oltre a svolgere una funzione educatrice, ha qualcosa da dire, e lo fa con cuore e sudore.

Far prorompere questo risultato fuori dalle sbarre, nei teatri regionali e nazionali è ciò che adesso serve: “si può fare?”.

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