
Piccola e grande, quest’anno Ermanna Montanari è madrina e anima di Kilowatt, Festival alla sua quindicesima edizione, che si protrae fino a sabato 22 luglio. Nel reciproco scambio di doni tra la cittadinanza di Sansepolcro e l’attrice, la sera di venerdì 14 luglio è stato tempo di assistere a Maryam (ultimo suo lavoro con il Teatro delle Albe) nella Chiesa di Santa Chiara, rifugio dove ci accomodiamo con gioia sconosciuta, per accogliere l’evento.
Dismessi gli abiti della guaritrice Bêlda, della maga Alcina, di Rosvita, Arpagone, del Conte Ugolino, Ermanna Montanari imprigiona e sprigiona tre preghiere di donne palestinesi – tre perdite, tre maledizioni, tre invocazioni a Maryam, Maria nella religione islamica. Un dolore rigoglioso, orgoglioso, pazzo, striminzito che esce come lame sussurrate, ringhiose o arrese – amuleti invisibili di donne che sfilano nei santuari dedicati alla Madre Vergine, in un culto presente anche in Medio Oriente e nel Maghreb. Uno sciame che non asseconda la linea retta di una grazia per se stessi o la persona amata. Ma l’augurio che il male colpisca chi ha fatto del male, chi volontariamente ha ucciso, stuprato, corrotto. Per chi ha convinto un bambino a diventare kamikaze mignon e farsi saltare in aria; chi ha abusato della nipote e poi fatta sparire, per quel “dovete mangiare la pizza che vi ho portato“; per chi non si ferma a salvare un ragazzo caduto in mare, seguendo un padre assente, scomparso e poi riapparso, ricercato da non si sa chi o cosa.
Un discorso solitario al microfono, quello di Ermanna Montanari dietro un velo, a volte nascosta dal buio, altre rischiarata da una luce come di sole cocente, che trasferisce in luoghi di conflitti vivi adesso, in questo momento, ora. E come se tutto fosse già stato scritto, parole arabe sono proiettate sul telo semi trasparente, che assorbe poi una calligrafia di immagini di guerra. Maryam ascolta un dolore che rinasce senza tregua, fiore mai annoiato, come se non lo riguardasse, accadesse su un’altra terra. Una dimensione di nervature sull’orlo di spezzarsi, che nel primo racconto si impadronisce totalmente dell’interprete, stretta in un soprabito plastificato, donna qualsiasi e simbolo universale, arrabbiata e pugnalata – un magma che sembra però raffreddarsi nelle altre visioni. L’ultima è quella di Maryam, rassegnata, colloquiale, quasi statua di un presepe soffocato, con un copricapo fatto di piccole lampadine, strana icona, e madre e sorella e amica.
La vertigine sonora creata da Luigi Ceccarelli si insinua quando ogni donna termina la sua richiesta di vendetta, in una breve sospensione che poi esplode in una progressione di suoni che tuonano in testa, nello stomaco, sulla fronte. Uno stordimento, un abbraccio, un non sapere cosa fare per bloccare processioni di donne che, in ogni parte del mondo, a prescindere dal credo religioso e l’appartenenza, chiedono, come fuori di senno ma centrate, “perché“.