
La borghesia è un ballo in maschera che non conosce fine. In Garden Party, andato in scena al Teatro Metastasio di Prato, la compagnia francese Compagnie N°8 di Alexandre Pavlata ne smaschera le ipocrisie con un linguaggio scenico che mescola mimo, danza, canto lirico e virtuosismi circensi, trasformando il palcoscenico in un salotto surreale dove l’eleganza si sgretola nel ridicolo. Non c’è spazio per la misura: qui si celebra il superfluo con toni grotteschi e parossistici, fino a varcare la soglia della follia. Una parata clownesca e burlesca che disseziona, con sarcasmo e ferocia, la vita aristocratica e i suoi riti ormai svuotati di significato.
La regia di Pavlata costruisce un universo teatrale in cui il confine tra il sublime e il ridicolo si assottiglia progressivamente, fino a dissolversi in una giostra di eccessi. Gli interpreti – marionette senza fili dai gesti esasperati – incarnano un’élite che si ostina a perpetuare il proprio mito, ignara di essere ormai una parodia di se stessa. Memorabile quando le attrici si iniettano punture in faccia contro le rughe, il volto paralizzato a metà in maschere mostruose, satira feroce della vanità moderna. O l’attrice-cantante, imbracata e sospesa, che volteggia cantando la Cavalcata delle Valchirie di Wagner, un mix di grandeur operistica e assurdo circense che stupisce e diverte.

In una stagione teatrale densa di proposte, Garden Party si distingue per l’ondata di internazionalità e sperimentazione che riversa sul Metastasio. Porta con sé il gusto del teatro di strada, non solo nella sua essenzialità scenica, ma nella natura nomade che lo rende vivo anche en plein air, capace di adattarsi a pubblici diversi e di dissolvere barriere linguistiche con l’assenza di parole. Eppure, confinato tra le mura di un teatro, perde un po’ di quella visceralità, di quel dialogo immediato con gli spettatori che ne è il cuore pulsante. È facile immaginarlo al Fringe di Edimburgo, dove il suo umorismo sfrenato e il suo spirito ribelle troverebbero terreno fertile.
Nel complesso, uno spettacolo che si nutre di un turbinio di gag, alcune delle quali riecheggiano lo stile assurdo dei Monty Python. A emergere è la grande mimica attoriale e un ottimo ritmo scenico, tra infiniti brindisi di champagne e risate che, dietro il loro fragore, nascondono il vuoto di un’élite alla deriva.

La stupidità, sembra suggerire lo spettacolo, è un’eredità collettiva, un giardino selvaggio in cui, prima o poi, tutti affondiamo le radici. Garden Party diventa così un ritratto spietato della decadenza sociale, una sociologia del superfluo capace di essere tanto esilarante quanto crudele. Un sabba frenetico di corpi che danzano sull’orlo del grottesco, svelando una verità tanto amara quanto universale: il superfluo non ha padroni, solo invitati che non sanno smettere di girare.