FaustIn & out: lei è sotto, gli altri sopra, lei è dentro, gli altri fuori

[rating=3] Pareti scure, frammentate e claustrofobiche, sulle quali scorrono le immagini del Faust di Murnau del 1929, un capolavoro dell’epoca. Una donna entra e si siede, inizia ad urlare (talvolta in modo poco convinto) e in un certo modo si presenta. Così si apre lo spettacolo “FaustIn & out” al teatro Arena del Sole di Bologna, sala Salmon, particolarmente indicata per questo spettacolo in quanto si raggiunge solo scendendo alcune rampe di scale.

Il tema dello spettacolo, tratto dall’omonimo libro di Elfriede Jelinek del 2011, è suddiviso in due parti: il Faust di Goethe e la storia di Elisabeth Fritzl, la ragazza che, nel paese di Amstetten (Austria), venne segregata da suo padre Josef nella cantina di casa per 24 anni, con violenze psichiche e fisiche che hanno portato alla nascita di 7 figli incestuosi e all’umocidio di uno di essi.

Dato che il primo atto si intitola “presentazioni”, ci immaginiamo che la prima donna che parla sia lei, Elizabeth, invece è un’operaia che confeziona pacchi, da un nastro trasportatore li prende e su un altro nastro se ne vanno, una vita senza senso immersa nel grigiore. Parla delle donne in terza persona, come se fosse un maschilista, “far tacere le donne, chi non lo vorrebbe?!”, e le dipinge sempre sull’orlo di una crisi depressiva che solo il medico può curare: “devono andare dal dottore e se non se lo ricordano c’è una rivista che glielo ricorda”. Una donna socialmente emarginata e sconfitta, che mantiene il suo significato solo se il nastro continua a portarle pacchi vuoti da riempire. La seconda presentasione è sempre una donna in un costume da orso che gioca con il microfono che ha in mano. Il suono della sua voce, se captato dal microfono, viene distorto, sembra provenire da un mostro. Ed infatti è la volta del padre, “se non ti mostri disponibile devo usare la violenza”, la depressione del “sopra” prende il posto alla violenza del “sotto”, “sulla terra si va dal medico e sottoterra si scopa”. La donna “bisogna vederla e possederla, quale sarebbe il suo scopo se no?!” si chiede il mostro-babbo, l’utilità del genere femminile è soltanto riproduttivo o almeno ludico per l’uomo.

In quella cantina la televisione è l’unica finestra sul mondo, viene gentilmente fornito “un secchio per i suoi aborti” e per gli escrementi in genere, un ventilatore per l’aria e le pareti insonorizzate per non disturbare i vicini; i rapporti di parentela si intrecciano: “io sono figlia, sorella, madre tutto in uno, pratico no?!”. Le immagini sono forti e il testo le evidenzia bene, anche se ritorna spesso sui medesimi punti, come tarli di una mente rinchiusa. Il padre è onnipotente, dispone incondizionatamente delle loro vite, ha la sua donna “scantinabile” come la desidera, i figli che nascono vengono bruciati nella caldaia, creando un “riscaldamento biologico autoprodotto”, scimmiotta Dio.

Faustin and out_ph. Elia Falaschi Phocus Agency

Tutto questo lavoro viene poi perso nella parte centrale dello spettacolo, dove ad un tavolo si ritrova Mefistofele, Elizabeth e l’operaia, si parla di finanza e di crisi economica, si spolvera la filosofia che, vestita come una dama dell’Ottocento, ci illustra come è stata licenziata per aver preso due budini scaduti ma ancora di proprietà del supermercato, si scomoda l’”essere” di Heidegger e “Il Capitale” di Marx, il tutto senza un senso apparente, così come Faust viene soltanto citato e proiettato sul muro ma non sviscerato.

L’ultima parte, un monologo della prigioniera, che viene ancora una volta rinchiusa fra quattro pareti montate da due operai, è bello quanto pesante e statico. Uno spettacolo con monologhi e immagini forti che però tendono a ripetersi e talvolta ad intrecciarsi con altre tematiche lontane, troppa carne al fuoco. Il testo è interessante e la prima parte davvero ben costruita, la recitazione è intensa e la scenografia tiene, i dettagli sono ben curati, ma nel pubblico si nota qualche defezione ben prima delle tre ore e mezza di durata.

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