
Siamo abituati a ricordare i nomi di chi la storia in qualche modo l’ha scritta, nel bene e nel male. Spesso invece quelli di chi, loro malgrado, l’hanno subita, cadono nell’oblio. Così è stato a lungo per Elena Di Porto “la matta di piazza Giudìa”. Ne parlò per primo Giacomo De Benedetti nel libro 16 ottobre 1943. In quel breve testo inizialmente clandestino, compariva la figura di una donna, “Celeste”, che all’alba della retata nazista nel ghetto di Roma, aveva cercato di avvisare la comunità giudaica, incitandola senza successo alla fuga.
Negli anni ’70 Elsa Morante riprende quella medesima figura di sentinella trasteverina, raccontando l’episodio del suo grido inascoltato ne La Storia. Stavolta col nome di Vilma. Nel 1983 Pino Passalacqua dirige poi per la Rai la docu-fiction 16 ottobre 1943 cronaca di un’infamia, dove ritorna la storia di una “pazza”, Rosa, che cerca di avvisare gli ebrei di Trastevere dell’imminente rastrellamento tedesco. Celeste, Vilma e Rosa sono la stessa persona e il suo vero nome è Elena. Elena Di Porto.
Ne ricostruisce quasi per caso tutta la storia Gaetano Petraglia, archivista di Stato che scopre diversi documenti che la riguardano a Lagonegro, dove era stata confinata. Una delle molte condanne per la sua nient’affatto celata opposizione al regime e alle politiche razziali. Perchè Elena non era pazza, ma solo tenace e ribelle. Fumava, giocava a biliardo, separata dal marito in un’epoca in cui una donna poteva solo soffocare nel silenzio. Ma non lei, Elena era una donna forte, pronta perfino a menare le mani, a guidare l’assalto a un’armeria, a difendere innocenti dalle angherie fasciste. E tutto questo ben prima dell’emanazione delle leggi razziali.
Per questa sua natura del tutto indomabile viene più volte arrestata, internata in manicomio e infine spedita al confino fra sperduti paesini della Lucania. Lontana dagli affetti, dai suoi figli, per anni. Dopo la caduta dei fascisti rientra a Roma e viene a conoscenza del piano d’assalto al ghetto romano meditato da Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma. Kappler stipula un falso accordo col rabbino capo Zolli: 50 kg d’oro in cambio dell’incolumità. Elena viene a sapere di una lista di capofamiglia ebrei nelle mani dei tedeschi già pronti a deportarli tutti. Corre disperata sotto la pioggia per avvisarli, mentre sono intenti nella celebrazione del sabato sacro, ma nessuno le crede. Kappler, rispondono, sarà di parola e all’oro mancante ci penserà il papa.
La storia però sarà scritta invece nel sangue di quei nomi inghiottiti dalla furia razziale. Quel 16 settembre del ’43 i tedeschi entrano nel ghetto. Caricano oltre mille persone, fra cui circa duecento bambini, fra questi la sorella di Elena e i suoi figli. Elena assiste alla scena da un tetto. Si precipita in strada e si dichiara ebrea, prendendo in braccio uno dei nipoti. Verrà caricata assieme agli altri, destinazione uno dei campi di sterminio in Germania.

Dalla documentazione raccolta e dalle testimonianze orali dei sopravvissuti a quello shabbat nero nasce il testo La matta di piazza Giudìa. Il racconto di Petraglia che ricostruisce la tormentata esistenza di questa donna a lungo vissuta fra realtà e leggenda. Un percorso lunghissimo, che porta infine la drammaturga Elisabetta Fiorito e il regista Giancarlo Nicoletti a rimodulare ancora questo personaggio storico per offrirlo infine, senza falsi miti, ma solo verità, talvolta anche crude, al pubblico teatrale nello spettacolo Elena la matta.
A interpretare Elena dal 5 al 16 febbraio 2025 al Teatro Sala Umberto di Roma Paola Minaccioni. Con lei i musicisti Claudio Giusti e Valerio Guaraldi, quest’ultimo compositore delle musiche di scena, entrambe già suoi accompagnatori musicali per L’urlo di Roma. Una tripletta da cinque minuti di applausi incorniciati nelle splendide scene di Alessandro Chiti che ricompone il quadrato geometrico della casa, del confine, della gabbia, del micromondo in cui Elena vive ed è costretta negli anni di confine. A circondarla stracci, abiti (costumi di Giulia Pagliarulo), frammenti del passato da “cenciarola” di piazza, fra avventori che potevano permettersi solo “‘na fojetta de vino” e mezza sigaretta di contrabbando.
La Minaccioni dà corpo e voce a un’Elena volitiva, che mescola ed esalta diverse altre donne incontrate nella sua vita. Lola la prostituta del confine, Ada chiusa con lei a Santa Maria della Pietà per aver dato degli assassini ai fascisti, “perchè mo non se po’ dì più niente, manco ‘a verità” (battuta su cui il pubblico del Sala Umberto esonda in un lunghissimo applauso) e poi ancora sua sorella, sua madre… È un’esplosione continua di talento, che passa dalla verace battuta romana alla canzone popolare. Ed è forse proprio sulle note de Le Mantellate che questa eccezionale artista riesce a esaltare tutta la sua potenza recitativa. Sul finale ringrazia l’autrice dello spettacolo Elisabetta Fiorito, per aver creduto in lei, un’interprete comica, che in realtà è stata in grado di restituire in scena tutte le sfumature possibili, dall’ironia alla tragedia.
Cinque minuti di palmi schioccanti hanno salutato la performance che, devo sottolinearlo, si è retta anche su un adattamento drammaturgico praticamente perfetto. Così pure come il disegno luci di Gerardo Buzzanca allacciato al millimetro con la regia di Nicoletti. Senza dimenticare l’apparato musicale, imbattibile protagonista sonoro. Un prodotto eccellente che ha incantato la gremitissima platea del Sala Umberto alla prima, abbracciando idealmente la Minaccioni. A lei oltreché alla drammaturgia e alla regia, il merito di aver ibridato in un unico grande momento di spettacolo una commovente pagina di ricordi. Ma voglio concludere con un ringraziamento anche all’autore Petraglia, per aver ricostituito con una necessaria operazione culturale pezzo per pezzo la memoria di Elena, che da quella vergognosa razzìa non tornerà mai più, anima dispersa fra i vinti, ma grazie a tutto questo mai e poi mai sconfitta.