
Ha debuttato il 20 maggio in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino, Solness, tratto da Il costruttore Solness di Henrik Ibsen, dramma scritto nel 1892, per la regia di Kriszta Székely nell’adattamento contemporaneo di Ármin Szabó-Székely e la traduzione di Tamara Török. Questa nuova produzione del Teatro Stabile di Torino, è un affresco lucidissimo delle dinamiche del potere emotivo e professionale, delle frustrazioni intergenerazionali e sui ruoli di genere. La regista ungherese, già acclamata per le sue letture incisive di Ibsen con Nora di Casa di bambola e Hedda Gabler, affronta con rigore e originalità una delle opere più complesse del drammaturgo norvegese, restituendo al pubblico uno spettacolo potente e denso di significati.
Valerio Binasco, in una delle sue interpretazioni migliori, interpreta un Halvard Solness magnetico e inquietante: architetto affermato, ma sempre più ossessionato dal controllo e dalla paura del declino, circondato da persone che orbitano attorno a lui come pianeti attratti da un sole tossico, e allo stesso tempo bruciati dalla sua luce. Tutti, in questa pièce, dipendono da Solness, ne sono affascinati o soggiogati, ma allo stesso tempo sono sue vittime. Il suo Solness è un uomo al culmine del successo, ma completamente svuotato: un architetto che ha costruito tutto — fama, denaro, influenza — tranne la propria pace interiore, incrinata da un passato doloroso e irrisolto. Carismatico ma prigioniero delle sue stesse manipolazioni, Binasco disegna in modo sapiente un personaggio fragile e potente, al tempo stesso predatore e vittima. È il ritratto di un uomo che, di fronte all’inatteso ritorno di Hilde, vede sgretolarsi il controllo sul mondo che si è costruito e cerca di tenere insieme le macerie della propria vita privata e professionale.

A far vacillare la figura di Solness e a rimescolare le carte è Hilde, presenza inquietante, ponte tra passato e futuro, tra seduzione e vendetta, personaggio enigmatico e dirompente, vero motore dell’azione. Alice Fazzi, che domina la scena insieme a Binasco, brilla nel ruolo di Hilde che arriva come una folgore alla vigilia del premio alla carriera di Solness, e con lei irrompe tutto ciò che è rimasto sopito: desideri, rimorsi, colpe. Si è portati a pensare che sia l’incarnazione della vita segreta e rimossa di Solness, la sua coscienza. La sua presenza, ambigua e seduttiva, riporta a galla un episodio oscuro del passato: una promessa fatta anni prima da Solness a una ragazzina di tredici anni, che ora ritorna come giovane donna per riscuotere ciò che le è stato promesso. Hilde rappresenta anche una femminilità complessa: è la giovane determinata a fare meglio della generazione precedente, ma anche la vittima di un sistema che ha abusato della sua vulnerabilità. Più che una persona, diventa simbolo dell’intero genere femminile e di tutti coloro che sono stati sfruttati, manipolati e dimenticati.
Fazzi è magnetica, sapiente nell’alternare candore e ambiguità, in grado di personificare un trauma rimosso, riesce a rendere con grande efficacia la natura destabilizzante del personaggio: la sua Hilde è insieme giovane donna ferita e figura mitica, musa e minaccia, desiderio e condanna. L’attrice riesce a tenere in sospeso la verità del suo personaggio, alimentando un senso di inquietudine che cresce scena dopo scena, fino a un finale carico di tensione simbolica.

Mariangela Granelli dà voce al dolore muto di Aline, moglie dell’architetto, inchiodata nel passato e in un matrimonio divenuto prigione emotiva. Le sue molteplici perdite e il dolore la rendono incapace di lasciare andare l’unico legame che le è rimasto, anche se logoro.
Laura Curino tratteggia con grande sensibilità Frida Brovik, un personaggio riscritto al femminile rispetto all’originale maschile. Frida è la storica collaboratrice di Solness, una donna che ha rinunciato a brillare per sé stessa, mettendosi al servizio del genio altrui. La sua Frida non è solo una figura secondaria del passato, ma un personaggio che incarna la questione del talento sacrificato, dell’ambizione mai espressa, del compromesso esistenziale. La Curino restituisce con finezza la stanchezza e la lucidità di chi ha capito troppo tardi di aver messo da parte sé stessa e di chi, forse, cerca un riscatto attraverso il figlio, Ragnar.
Quest’ultimo è il giovane architetto in erba che lavora per Solness, interpretato da Marcello Spinetta, pieno di aspirazioni ma ancora incapace di affermarsi: una figura emblematica della generazione dei “protetti”, che fatica a trovare una vera indipendenza, una propria identità. Accanto a lui, Lisa Lendaro interpreta Kaja Fosli, l’assistente soggiogata dal carisma e dall’autorità di Solness, coinvolta anche lei in un legame ambiguo.
Simone Luglio veste i panni del dottor Herdal, psichiatra e amico di famiglia, la cui professionalità vacilla sotto il peso di un coinvolgimento troppo personale nei dolori di Aline e nei turbamenti di Solness.
Kriszta Székely conferma la sua sensibilità nel trasformare il testo ibseniano in un’esperienza coinvolgente visiva e psicologica. La scenografia di Botond Devich, i costumi di Ildi Tihanyi e il disegno luci di Pasquale Mari creano un ambiente teso, quasi claustrofobico, che restituisce appieno la dimensione interiore dei personaggi. Il suono curato da Filippo Conti accompagna con precisione e suggestione le traiettorie emotive dei personaggi.
La regia porta in scena questi personaggi e le loro relazioni con una freschezza visiva e concettuale sorprendente, con una rilettura contemporanea che rende il dramma di Ibsen ancora più attuale. Questo Solness ci ricorda che il potere, se non è condiviso, si trasforma in gabbia, anche per chi lo detiene. Dietro l’apparente parabola di un artista in crisi, si nasconde un’indagine profonda sull’uso del potere, sull’ego maschile, sulle relazioni di dipendenza affettiva e professionale, sul prezzo che si è disposti a pagare per la grandezza.
Il lavoro di Székely non è solo un adattamento, ma una riscrittura critica: uno spettacolo complesso, che non cede alla semplificazione, ma invita a riflettere. La domanda che resta impressa è attuale: quanto vale davvero il successo, se costruito sulle macerie e il dolore degli altri?