Edipo re, magnifica ossessione del teatro

Andrea De Rosa dirige un teso ed efficace Edipo re al Teatro Grande di Pompei

Schermi. Lastre di plexiglass come quelle utilizzate durante l’ultima pandemia conosciuta dall’uomo sono disposte in modo ordinato, in una sorta di semicerchio, occupando, insieme a riflettori, lampade, luci, tutto lo spazio dell’orchestra, la scena ci attende, il nostro sguardo cade su di essa mentre ci avviamo al nostro posto, qui al Teatro Grande di Pompei, terza giornata di questa VII edizione del Pompeii Theatrum Mundi: abbiamo appuntamento stasera con quella che forse è il prototipo stesso di tragedia, la vicenda di Edipo re, che Sofocle presentò agli Ateniesi intorno all’anno 430 prima della nascita di Cristo, all’incirca venticinque secoli fa, tempo e spazio talmente distante da noi da perdersi in rarefatta e distaccata astrazione teorica.

Pure esistono, a ben guardare, indubbiamente, svariati punti di contatto – forse molto più di quanto ci aspetteremmo – con quella realtà d’apparenza così diversa: erano ancora in guerra, a quel tempo, gli Ateniesi, impegnati a difendere il più grande dei loro beni, la democrazia, dagli assalti di Sparta, un terribile conflitto il cui racconto ci è stato tramandato da Tucidide, guerra lunga e penosa e sanguinosa. Come non bastasse, era da poco uscita, Atene, al tempo in cui scrive Sofocle, da una insidiosa e mortale pestilenza che aveva provocato lutti e morti, tanti da non poter essere sepolti o bruciati con gli onori funebri, portati via nella notte dalla città dolente e chiusa nel dolore e nel terrore: come si vede, se i tempi indubbiamente cambiano, sofferenza e morte sempre si assomigliano.

È partendo da queste assonanze, ripercorrendo insieme all’Autore questo percorso di tragica interrogazione e dolorosa agnizione, che Andrea De Rosa crea un suo particolare itinerario epifanico che trova, certo, accenti del tutto personali, partendo da una bella ed efficace traduzione di Fabrizio Sinisi, ma che si muove in modo del tutto parallelo a Sofocle, cercando di rintracciarne il senso più intimo e vero, le vestigia perdute, la stessa ispirazione fondativa del tragico e del teatro in questa parte del mondo.

Perché se la vicenda di Edipo come ci viene raccontata da Sofocle è prima di tutto storia di un figlio che porta su di sé il peso del suo segreto, della maledizione che si cerca in tutti i modi di evitare e che tuttavia insegue i protagonisti, insidiandone atti e gesti fin nell’intimo, tuttavia il mito, nelle sue tragiche componenti fondamentali – la terribile profezia, il parricidio, la Sfinge, l’incesto – non interessa più di tanto l’Autore, viene dato per scontato, tutti gli spettatori dell’epoca conoscevano benissimo gli assi portanti di questa storia già allora diventata emblematica e archetipa, e questo vale anche per noi, moderni spettatori che ci assepiamo su queste gradinate stasera, che grossomodo conosciamo Edipo e il suo racconto, ne abbiamo sentito parlare, qualcuno ha visto già altre volte questa stessa tragedia, altri hanno anche approfondito con letture e studi.

Il tragico, a ben vedere, in questa storia ormai stilizzata al punto da iconizzarsi, non consiste nell’aver ucciso il proprio padre e sposato la propria madre, tutto questo è già avvenuto in un passato senza tempo e senza età, è scritto indelebilmente nel mito e dunque nel retaggio di Edipo e di noi tutti; la tragica attualità risiede invece nel fatto che Edipo, il re, si scopre improvvisamente colpevole di questi delitti, protagonista negativo e maledetto e causa addirittura di una pestilenza che ammorba la sua stessa città: accanto ai profondi interrogativi sulla natura del libero arbitrio e sul potere del destino, che sembra di fatto rendere gli uomini del tutto impotenti di fronte al suo enorme potere, esiste allora un secondo tema che corre del tutto parallelo rispetto al primo, ed è quello della verità e della conoscenza, della luce e della cecità, Edipo è colui che vuol vederci meglio, non si accontenta di verità di comodo, e tuttavia proprio questa sua sete di verità lo porterà alla rovina.

È per queste ragioni che Edipo re, prima di essere tragedia della libertà, prima di essere tragedia della sessualità, come intuito da Freud, è somma e inestricabile tragedia della luce, centrata sul rapporto dell’uomo – e di conseguenza della società – con la verità, con la visione della verità, perché vedere la verità può accecare, può essere insopportabile, può, alla fine, ustionare lo sguardo e rendere, per una sorta di contrappasso, ciechi del tutto: a quanto è dato sapere da svariate fonti e ricerche, quegli stessi Ateniesi che assistettero per la prima volta alla rappresentazione non erano al corrente dell’ultimo gesto, l’accecamento di Edipo, spettacolare e terrificante, un vero e proprio coup de théâtre, variante della tradizione del racconto di Edipo introdotta proprio da Sofocle e successivamente entrata di diritto a far parte del mito e che trova una fitta rete di allusioni e presagi nel testo, tramite le quali l’Autore anticipa, enfatizza ed echeggia l’accecamento – che avverrà solo alla fine della tragedia – e che si concretizzano soprattutto nel dialogo con Tiresia.

Costruisce, allora, il regista, grazie anche alla complicità di Daniele Spanò e alla luci di Pasquale Mari, una scena che è, di fatto, un teatro di posa in tempi di pandemia, luci, riflettori, faretti ci immergono in un’atmosfera essenziale ed astratta che ci riporta a un luogo che nel suo possibile, imprecisato sviluppo, può divenire qualsiasi cosa, proprio per la sua natura teatrale, che è mimesi, gioco d’artificio e d’allusioni, fabbrica di simulacri fantasmatici di nulla essenza, esitando alla fine in sogni ed incubi, a seconda dei casi.

Si muovono qui, nella penombra che sfida la notte incipiente senza troppo turbarla, sei personaggi, sei attori portatori ognuno della propria verità, delle proprie esigenze, delle proprie non scontate alchimie: cinque si presentano a un frastornato Edipo protetti da schermi di plexiglass trasparente, chiaro rinvio alla pandemia, figura della pestilenza di Tebe, ma con la presenza evidente di una ulteriore banda di protezione all’altezza degli occhi, perché è, questa, epidemia perniciosa ed esiziale, che trova il suo veicolo di contagio, evidentemente, non nel respiro ansioso e affannato, non nell’aria infetta e ammorbata ma nella vista, invece, entrando in noi attraverso lo sguardo, che dunque ha bisogno di una ulteriore protezione; guardare il dio direttamente negli occhi porta male, ne sa qualcosa Tiresia che una volta per ventura ha guardato Atena nuda e per compenso è rimasto cieco, acquistando tuttavia la sapienza di saper guardare oltre, al di là delle cose stesse.

Ma chi si nasconde dietro Tiresia, che evidentemente sa molto di più di quel che dice, dietro messaggeri e pastori che la verità possiedono perché hanno conosciuto il bambino abbandonato dalla madre snaturata, i piedi incatenati tanto da renderlo storpio, chi, se non il deus absconditus, Apollo l’obliquo, Apollo l’arrogante, Apollo il giustiziere, Apollo signore della Parola, Apollo signore delle Muse e del Teatro? Apollo diventa, in tal modo, il vero protagonista della tragedia, molto più dell’antico deus ex machina, si erge a motore delle cose, che dirige e indirizza l’incessante inchiesta di Edipo fino alle estreme conseguenze, alla luce della verità che, è vero, abbaglia fino a squassare, fino a perder la vista, ma che ricompensa alla fine, con il dono stupefatto del dio-con-noi, della celebrazione eterna dello sguardo e della luce che attraversa i secoli. È dunque nel teatro e nella tragedia che trova il suo centro la riflessione di Andrea De Rosa, passione che si contagia tramite lo sguardo infiammato, l’occhio che guarda e l’occhio che restituisce, caricato di nuova sapienza, quello stesso sguardo, visione che immortala ed esalta, che permette il perpetrarsi di parole e pensieri, emozione e brama, desiderio e follia.

De Rosa aveva dedicato la sua precedente incursione nell’universo tebano, con le Baccanti, a Dioniso: se l’arte dionisiaca per eccellenza, pura ebbrezza d’astrazione immateriale è la musica, se l’apollineo trova invece la sua espressione nel più puro equilibrio delle forme nelle arti figurative, è nella tragedia, nel teatro, che si realizza la perfetta sintesi tra le due energie, attraversando lo specchio di svaporate apparenze, raggiungendo la terra di mezzo delle meraviglie e delle isole che mai furono, nulla è più ciò che appare, il bello e l’orrido appaiati correre vicinissimi sull’orlo del baratro nero, dietro la carezza ecco nascondersi il sangue della violenza estrema, la pausa dal dolore rivelarsi alla fine non già il rimedio al male del mondo ma solo apparente e temporaneo diversivo, inganno della coscienza, strabismo delle emozioni che ci fanno scambiare il bene col male e viceversa, l’emozione e la sapienza, il torto e la ragione, la libertà e l’autorità, l’identità e la pluralità.

L’Edipo di Marco Foschi ha giovani trasalimenti e rabbie trattenute, vivendo appieno il travaglio del suo personaggio, creatura apollinea, eroe-re e teatrante-indovino – perché doppi sono infatti i nomi degli dei e così anche di Apollo – vivendo sulla sua pelle il capriccio degli dei, che spesso esigono il sacrificio di chi amano: se Artemide si prende Ifigenia, Apollo ruberà la luce di Edipo, rendendolo, per questo, eterno nella rievocazione della tragedia. La sedia su cui siede all’inizio, di spalle alla scalea degli spettatori, la stessa su cui, nelle Baccanti, sedeva Penteo, simbolo di forza obliqua e ambigua, materica icona del potere assoluto che Edipo ha esercitato, ben lo rappresenta e costituisce – non l’incesto, di cui non era consapevole, non l’omicidio, a cui fu indotto da una sciocca provocazione – la vera, autentica sua colpa.

Frédérique Loliée riesce a farci toccare con mano l’interno dissidio della madre-moglie, vivendo, nell’assoluta inconsapevolezza dell’incesto, una qualche consapevole incertezza del suo ruolo, scisso, e non potrebbe essere diversamente, tra tenerezza e seduzione, accoglienza e desiderio, in una crescente angoscia parallela all’aumentare dell’ansia di verità nel figlio-marito: se Edipo è l’innocente ignaro, lei, che ha abbandonato il figlio per compiacere il marito, vive invece in pieno lo straziante rimorso per quel gesto. Ne deriva un comportamento – ed è assolutamente sublime quel ridere fuori posto, quel ritrarsi e poi lasciarsi andare, quella precaria insicurezza che l’inquietudine carica d’aggressività – che tanto la porta a rassomigliare, alla fine, a una sorta di Lady Macbeth oscura e buia, di lei fors’anche più colpevole, nel tentativo di manipolazione del marito, lentamente scivolando verso la rovina il cui esito non può essere che la follia o la morte.

Il Creonte di Fabio Pasquini, se con veemenza respinge le accuse d’Edipo d’esser lui l’uccisore di Laio che appesta la città, proclamando la sua estraneità a qualsiasi tentazione di potere, vive tuttavia la consapevolezza d’esser lui il vero uomo di potere, a Tebe, inamovibile, in tutto simile a tanti politici che ancor oggi popolano le nostre città, che incrociamo ogni giorno, eternamente uguale a se stesso, con le sue dure ragioni da opporre a chi sia mette sulla sua strada, in mezzo i miti, i poveri diavoli, i “normali” – se pure esistesse una incolpevole normalità – votati a trovarsi “in mezzo”, tra l’incudine e il martello, o a soccombere, se mai avessero, come Edipo, una coscienza di fronte alla quale inchinarsi.

Francesca Cutolo e Francesca Della Monica sono il coro di questa città straordinaria che mai non vediamo ma che intuiamo grazie a loro, che portano nei canti e nei versi lo strazio e lo sgomento del popolo, sorta di tappeto musicale che spesso si esalta, a volte rompe in pianto, sempre accompagna insieme ravveduti pensieri e rapimenti abortiti, nel cullarsi, rapido e mesto, del dolore che strazia.

E infine c’è Apollo, ovvero le ragioni di Tiresia, del messaggero corinzio, del pastore, dell’araldo: tutti, nella visione di De Rosa, accomunati dall’essere strumenti del dio, incarnati da Roberto Latini  con il necessario distacco che comporta dar carne e sangue al sussurro del dio; perché è proprio con un sussurro che il dio esorta e ispira spesso Edipo: sei tu!, gli dice e nel mentre gli suggerisce, in vario modo e grado nelle diverse incarnazioni, di lasciar perdere, di rinunciare a sapere, di godersi la sua felicità senza ad altro pensare, in un continuo giocar come il gatto col topo, appartenendo, in tutta evidenza, le sue ragioni, ad aliene motivazioni, a pensieri incommensurabili, a orizzonti del tutto estranei.

Così, quando ormai tutto è compiuto, vinta del tutto la ritrosia d’Edipo, superate le resistenze di Giocasta, quando il dubbio prima, la consapevolezza poi di una innominabile se pure inconsapevole verità è ormai diventata piena e naturale coscienza, Apollo – o colui che agisce in nome suo – toglie finalmente, con un rapido gesto, la protezione che celava il suo sguardo, trafiggendo Edipo, penetrandolo, facendolo suo per l’eternità, bruciando per sempre la sua vista: in questo preciso momento Edipo diventa cieco alle cose del mondo, seguendo Tiresia nel suo destino, perché non si può guardare in faccia Dio senza venirne annientati, senza morire alle cose del mondo, rinati, tuttavia, a un mondo e una vita altra e del tutto inconoscibile.

Poi, naturalmente, verrà il racconto dell’araldo, ennesima incarnazione del dio, che narra del suicidio di Giocasta e di come Edipo, presi due spilloni dall’abito della moglie, con quelli di sia accecato: il sangue non c’è mai, sulla scena, nella tragedia greca, come per i figli di Medea, come per Antigone, la morte è raccontata, diventa narrazione, mediazione. Edipo, rialzatosi dal corpo di Giocasta, fatte le ultime raccomandazione a Creonte, si avvia al suo destino di esule senza patria, il buio già ci avvolge, coinvolgendo anche noi nelle tenebre senza fine del suo sguardo: è in quel momento che interviene il dio, al culmine del dolore e dell’annientamento, gli dona una sorta di bastone luminoso che dovrà sorreggerlo nel suo cammino: è, non potrebbe esser diversamente, un dono d’Apollo, una sbarra di luce, non gli servirà per vedere le cose del mondo, certo, quelle son perse per sempre, gli darà la possibilità di vedere tuttavia oltre il mondo della materia, fatto di carne e sangue, lo farà entrare per sempre in quell’universo fragile ed effimero fatto di nebbia e luce, che ha la stessa consistenza del nulla, intessuto della stessa materia del sogno e della follia.

Avanza verso di noi, Edipo, a tentoni, a fatica, lo sguardo perso attraverso lo schermo di plexiglass e ora mediato dal dono del dio, la sbarra di luce ha preso il posto della protezione degli occhi, ora sembra guardarci, scrutarci, ricambiando il nostro sguardo di spettatori, superando d’un balzo la distanza inimmaginabile di venticinque secoli, innumerevoli altri, prima di noi, hanno visto quello stesso sguardo dei suoi occhi, mediato attraverso il dono d’Apollo, per il tramite di un attore che, sulla scena, ha preso la sua persona, portando fino a noi i suoi rimossi pensieri, le angosce quotidiane, il mestiere di vivere. È il teatro, il dono d’Apollo, luce che non si spegne, in un soffio ne diventiamo lucidamente consapevoli, un attimo prima che tutto precipiti nel buio e s’accenda, la gran cavea antica, del calore dell’esplosione repentina dell’applauso, sostenuta, continuata, alimentata dall’energia accumulata delle emozioni fin qui trattenute che lasciamo che infine si impossessino di noi, contagiati dalla stessa identica magnifica ossessione, mortale malattia dello sguardo.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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edipo-re-magnifica-ossessione-del-teatroEdipo re <br>di Sofocle <br> traduzione Fabrizio Sinisi <br> adattamento e regia Andrea De Rosa <br> con (in o.a.) Francesca Cutolo (coro), Francesca Della Monica (coro), Marco Foschi (Edipo), Roberto Latini (Tiresia), Frédérique Loliée (Giocasta), Fabio Pasquini (Creonte) <br> scene Daniele Spanò <br> luci Pasquale Mari <br> suono G.U.P. Alcaro <br> costumi Graziella Pepe (realizzati presso Laboratorio di Sartoria del PICCOLO TEATRO DI MILANO – TEATRO D’EUROPA) <br> produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale <br> Durata: 1 ora e 15 minuti (atto unico) <br> In scena dal 4 al 6 luglio 2024 <br> Pompei, Teatro Grande, 5 luglio 2024