
Nel buio della sala, spente anche le ultime luci, Don Giovanni e Sganarello entrano in palcoscenico alla chetichella, salendo dalla platea, scostano il sipario ed entrano in scena: questa entrée così poco convenzionale ci restituisce in fondo la cifra e il sapore di questo spettacolo, un protagonista sfuggente come pochi, aduso all’ombra più che alla luce, che guadagna, in questo caso, gli onori del palco per vie traverse, perché questo particolare Don Giovanni che vediamo aprire la Stagione qui al Teatro Mercadante di Napoli è, specifica la locandina, un adattamento da Molière, Da Ponte, Mozart curato, diretto e interpretato da quel portento del teatro contemporaneo che è, comunque la si pensi, Arturo Cirillo, che ci ha del resto abituati a questo approccio poco tradizionale con i classici del teatro.
In particolare, poi, son diversi anni che va esplorando Molière, imparando a restituircene intatto lo spirito e rispettando perfino la lettera del gran francese. Il quale, tuttavia, non è certo il primo ad essersi interessato del multiforme personaggio di Don Giovanni, che nasce invece molto molto prima, forse perfino in un tempo assai più remoto di quel che conosciamo, cambiando spesso il pelo, come si suol dire, piuttosto che il vizio. Così, alla fine, sono molti i Don Giovanni che conosciamo, il personaggio attraversa i secoli con stupefacente sicumera, paragonabile all’inguaribile faccia tosta da seduttore, sempre uguale a se stesso – meglio, con alcune caratteristiche invariabili – e sempre diverso: pur essendo uno dei personaggi più rappresentati e iconici del pensiero occidentale, la sua intima essenza, passando attraverso i vari Autori che lo hanno rappresentato, finisce per sfuggire.

Dissoluto e donnaiolo, cinico e arrogante, infedele e sfrontato, coraggioso e spergiuro, il personaggio nasce per quel che ne sappiamo nel Secolo barocco, caratterizzato dallo spirito libertino nel duplice significato della parola: sia, cioè, libero pensatore pronto a negare l’esistenza di Dio o di un potere superiore – e indagare i rapporti di Don Giovanni con il Potere ci porterebbe, con molta probabilità, molto lontano – sia ingordo sessualmente, quasi che l’empietà abbia per necessario corollario la rottura del comune senso del pudore. Tirso de Molina, ne fa, infatti, nel 1625, incarnazione stessa del peccato, nella sua intima sostanza teologica, quasi un capitolo della dottrina cattolica che prende forma teatrale, in cui tuttavia sono presenti le due invariabili che sempre caratterizzano il personaggio, derivate probabilmente, da due distinte leggende popolari: quella del convito macabro – l’individuo che invita un teschio è figura di tutto il folclore europeo – e quella del profanatore/assassino di un luogo sacro.
Per inciso, l’opera di Tirso ebbe gran successo, se è è vero che fu rappresentata, in quello stesso 1625, qui a Napoli ad opera della Compagnia di Pedro Osorio. Di lì il personaggio ha preso il volo, sono innumerevoli le versioni che si succedono, soprattutto da parte di autori italiani e francesi, da Giacinto Andrea Cicognini a Domenico Giuseppe Biancolelli, da Nicolas Drouin a Claude Deschamps de Villiers fino a Molière, che fa dello spagnolo cattolico (in)cosciente del suo peccato un francese ateo che non solo non si pone il problema di Dio e dell’aldilà, ma anzi utilizza il credo religioso delle sue vittime come ingegnoso passepartout per arrivare ai loro letti; la religiosità superstiziosa di Sganarello non fa che accentuare il contrasto.
Ovvio che, nella Francia assoluta del cattolicissimo Re Borbone tutto questo non poteva essere tollerato e così dopo quindici rappresentazioni, nel 1665, del Dom Juan ou le Festin de Pierre furono sospese le rappresentazioni fino all’autocensura che trasformò la commedia umana di Molière in un monito sull’inevitabile castigo delle persone libertine e irreligiose. Con Mozart, è il caso di dirlo, la musica cambia: sulla carta, secondo il libretto di Da Ponte, è il personaggio negativo, il catalogo che tiene il servo-complice Leporello conta già un infinito elenco di donne, sulla scena ne vediamo tre, Donna Elvira, portatrice della grande sciagura di essere innamorata di lui, Zerlina, contadina ingenua e oca che lui facilmente seduce, Donna Anna cui lui uccide il padre che voleva difenderla dallo stupro. La musica, tuttavia, racconta un’altra storia, narrata con distacco e serenità da un musicista che certamente guardava più al lato apollineo del personaggio piuttosto che a quello dionisiaco.

La scena in cui Arturo Cirillo fa ritrovare all’inizio il suo Don Giovanni accompagnato dal servo infingardo è dovuta alle matite e all’invenzione di Dario Gessati: riproduce un ambiente classicheggiante, prevalentemente notturno o crepuscolare, una grande scala marmorea – che nel corso della pièce vedremo anche dividersi in due parti – conduce a una sorta di terrazza pensile, delimitata da una balaustra in colonnine, anch’essa di marmo, mentre in lontananza si scorgono cime di cipressi stagliarsi nel cielo serotino, due statue, una maschile e una femminile, appaiono sulla terrazza, scambiandosi frequentemente di posto.
In effetti tutta la struttura conferisce abbastanza dinamicità alla scena perché, a dispetto della sua imponente apparenza, ha elementi che spesso si spostano, si muovono cambiando prospettiva e profondità, rivelando insospetti anditi, nascosti passaggi, latenti androni e vestiboli al suo interno. Nella scena finale del convito, poi, la tavola di Don Giovanni è apparecchiata sul davanti della struttura, che dunque si presta con duttilità alla bisogna, pur non cambiando mai, un po’ come il protagonista: insomma, tutto sommato una scena gradevolmente funzionale e articolata nel suo insieme che tuttavia non brilla certo per originalità.
L’adattamento scritto da Cirillo segue soprattutto Molière e dunque la sua prosa, che s’impernia su riflessioni più o meno profonde e ironiche sulla natura umana, la moralità e il libero arbitrio, elucubrazioni in forma di dialogo soprattutto con Sganarello (qui interpretato da un ottimo Giacomo Vigentini): preferisce, l’Autore, il nome molieriano del servo di Don Giovanni, rispetto al dapontiano Leporello. Non sarà sempre così, come vedremo, per altri personaggi e questo, se si vuole, è un primo elemento da notare commentando la costruzione di questa pièce, la piena libertà espressiva, cioè, dell’Autore che, inserendo all’interno del corpus della Commedia di Molière episodi e a volte intere situazioni comprensive di personaggi di cui non c’è traccia nell’originale, d’invenzione mozartiana o dapontiana, dunque, corre tuttavia il serio rischio di creare un ibrido fantasioso, una sorta di chimerico ircocervo, portentoso ma improbabile monstre che non riesce a ritrovar più la propria identità.

A maggior ragione questa perplessità si fa vieppiù seria e importante quando si pensi all’utilizzo anche della musica di Mozart, pur se opportunamente semplificata e arrangiata e adattata all’orecchio contemporaneo da Mario Autore e non certo perché questo generi obiezioni da lesa maestà, che ormai lasciano evidentemente il tempo che trovano, ma perché gran parte del fascino del Don Giovanni di Mozart risiede proprio nell’ambiguità tra il sentire dei due Autori, Mozart e Da Ponte: nel personaggio orgogliosamente libero pensatore si rifletteva soprattutto il librettista, trovando consonanze col proprio personale sentire, mentre Mozart lo viveva in modo molto più libero e liberante, meno filosofia e molta più levità, una mistura che in qualche modo e in qualche misura anticipa di qualche decennio il Romanticismo che verrà.
Dirò subito che tutte queste premesse, pur doverose, esprimono più che altro i timori della vigilia, perché alla fine le personali perplessità – posso senz’altro a questo punto chiamarle preconcette – sono state superate in virtù soprattutto dalla capacità dell’Autore, ma soprattutto del Regista e in modo superlativo del Protagonista che riesce nell’impresa improbabile di far sintesi, di unificare un tessuto che rischiava in ogni momento di sgranarsi, di cedere alla tentazione della macchietta, da un lato, del serioso orgoglioso dall’altro: costruisce, allora, Arturo Cirillo, partendo da diversissime fonti, una drammaturgia coerente che si adatta a pennello a se stesso, vero animale da palcoscenico che si situa all’interno della grande tradizione del teatro, quella del Capocomico attore in mezzo agli attori ma capace di far sintesi del passato e trarne premesse per costruire il nuovo.

Così, dopo il primo dialogo tra Don Giovanni e Sganarello e poi la scena con Donna Elvira (resa con particolare fervore da Giulia Trippetta), il primo tassello mozartiano è proprio la prima scena dell’opera, nel giardino del Palazzo del Commendatore, il tentato stupro di Donn’Anna (Irene Ciani, interpreta pure Zerlina), l’omicidio del padre (il Commendatore è reso con intensità da Rosario Giglio), l’inseguimento vano di Don Ottavio (Francesco Petruzzelli, in scena anche come Masetto): è una situazione totalmente inventata da Da Ponte, come pure i personaggi che agiscono qui, ma il passaggio da Molière a Mozart non solo è del tutto indolore ma devo dire che riesce a perfezione, perfino la transizione improvvisa dalla prosa ai versi e la presenza della musica non interrompe l’azione drammatica, anzi in qualche modo ne accresce il pathos.
I versi del libretto sono recitati, solo ogni tanto si azzarda un passaggio cantato, devo dire che è la prima volta che sento declamare senza cantarle le rime di Da Ponte in un teatro non amatoriale e posso senz’altro concludere che reggono benissimo la prova, d’altra parte sono di ottima fattura pur appartendo ad un libretto d’opera e dunque confezionati con tutte le convenzioni dell’epoca per adattarsi alla musica. Ma, ripeto, il trapianto mi è parso riuscitissimo, e questo vale pure per i successivi tasselli, scelti tra le scene più note o significative della partitura: così è per la famosa scena del catalogo in cui il solito Leporello (Sganarello, pardon…) sciorina il numero delle amanti del padrone diligentemente catalogate per nazionalità cosicché risulta che in Spagna son già milletrè, così per la deliziosa scena di seduzione della povera Zerlina e del goffo Masetto (nomi mozartiani, in Molière si chiamano Carlotta e Pierotto) che può risultare interessante perché la piccola vicenda dei contadini gabbati dal padrone viene trattata in modo tutto diverso dal duo Da Ponte-Mozart rispetto al barocco Molière, più modernamente, sottolineando fortemente le angherie e la protervia dei nobili, tema già affrontato dai due nel quasi coevo Le nozze di Figaro e che prelude già – siamo tra il 1786 e il 1787 – alla tempesta che di lì a poco si sarebbe abbattuta sull’Europa chiudendo un’era e segnando per sempre la fine della nobiltà, perlomeno di quella di sangue.
Può essere allora piacevolissimo, per chi ama il teatro e il teatro musicale, soffermarsi sulle differenze che pure vengono conservate intatte, tra il Don Giovanni filosofo – che tanto ricorda certi filosofi dei tempi odierni – preso in giro da Molière con le sue tirate ridicole contro i benpensanti, i medici, i preti, e chiunque, in definitiva, non la pensi come lui, il Don Giovanni autenticamente spirito libero descritto da Da Ponte che coltiva l’orgoglio della sua posizione, fino alla morte, e infine lo spirito allegro e sottile mozartiano, il Don Giovanni che non ha bisogno di stuprare le donne né di ammazzare padri protettivi, semplicemente ama le donne con il sospiro di là ci darem la mano: Cirillo riesce a portarli avanti tutti insieme, questi Don Giovanni, senza bisogno di scorciatoie e senza scadere mai – il pericolo in questi casi è sempre in agguato – in una sorta di avvilente parodia che avrebbe svilito la complessità del personaggio, vero tragico dell’era moderna.
E poi si va avanti con una narrazione che si fa sempre più incalzante fino al convito e all’arrivo della statua del Commendatore, dove Cirillo non manca di stupire una volta di più: in Molière Don Giovanni muore folgorato al contatto con la mano del convitato di pietra, in Mozart la mano del Commendatore lo trascina addirittura fino all’inferno, con la terra che si apre e fuoco e fiamme che avvolgono la scena, un’occasione in più per chiudere con gran strombazzamento il sipario. Sceglie, invece, Cirillo, di far morire il suo protagonista, dopo il contatto con la mano della statua, semplicemente facendolo sedere su una sedia e lasciandolo quasi addormentato, una morte in fondo comune, ordinaria, se mai la morte ammetta distinzioni: muore, Don Giovanni, alla fine di una vita vissuta fuori dal comune, come un uomo qualunque e questo, probabilmente, è la punizione più cocente per un uomo di tal portata. Ottimo, direi.