
Si fa presto a dire naif. In realtà ci sono tanti altri modi in cui si può definire Antonio Ligabue, protagonista della mostra “I misteri di una mente” inaugurata il 27 settembre al Museo Storico della Fanteria di Roma, dove sarà visitabile fino al 12 gennaio 2025.
Pittore di misteri interiori, appunto, e di tormenti, ma anche pittore della natura, di campi, di boschi e di cortili, pittore di animali, cani, cavalli, galline e bestie africane che non aveva mai visto dal vivo.
Questo rapporto artista-natura e artista-animale è uno degli aspetti che fanno da fulcro all’esposizione in corso nella Capitale, la città che nel 1961 lo consacrò come artista in occasione di una mostra alla Galleria La Barcaccia.
Da allora Ligabue è stato un personaggio iconico dell’arte italiana, la cui vita tribolata è stata peraltro raccontata in più di una produzione televisiva e cinematografica (ricordiamo da ultimo il bellissimo “Volevo nascondermi” del 2020, diretto da Giorgio Diritti con Elio Germano nei panni dell’artista); ma proprio questa vita drammatica e turbolenta, la personalità burrascosa e fuori norma, hanno spesso rischiato di essere una lente troppo deformante attraverso la quale guardare alla sua produzione artistica. Come se il personaggio adombrasse le sue stesse opere.

Da qui il rischio di affibbiargli un po’ troppo frettolosamente l’aggettivo naif (letteralmente “ingenuo”), forse cedendo alla tentazione di definire con tale termine più la persona che la sua arte. Perché la sua arte è invece, come dicevamo, tante cose.
La rassegna di oltre 60 opere tra quadri e sculture si apre mostrando una prima evidente evoluzione della pittura di Ligabue – che, ricordiamo, era completamente autodidatta – dai primi ritratti di animali, con segni più essenziali e colori più piatti, alle forme ricche, variopinte e pastose della sua produzione più matura, in cui la semplicità dei soggetti è spesso stravolta dalla forza drammatica del tratto, delle pennellate. Più che pittura naif, dunque una forma di espressionismo alla Van Gogh.
E poi l’ossessione per i soggetti ripetuti, come i numerosi cani a puntasecca e gli animali in bronzo.
Uno dei meriti di questa mostra, prodotta da Navigare srl e nata da una iniziativa di Difesa Servizi SpA, con il patrocinio della Regione Lazio e di Città di Roma, è proprio quello di aver valorizzato – molto più di quanto non si faccia di solito – anche la produzione del Ligabue scultore, per qualche motivo rimasta sempre in secondo piano, sebbene la sua abilità nell’arte plastica fosse emersa probabilmente prima ancora di quella nel disegno e nella pittura.

I soggetti delle sue sculture in bronzo sono gli animali consueti del mondo contadino in cui era immerso, come buoi, cani e cavalli, ma anche gli animali di mondi lontani che scopriva sui libri, tigri, scimmie e leoni. Un ricco e variegato e tormentato “bestiario” che viene generalmente identificato con il caos feroce, istintivo e a volte ingestibile dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Interpretazione scontata? Forse, probabilmente non troppo distante dalla realtà. Sappiamo che spesso Ligabue prima di dipingere o modellare un animale cercava letteralmente di “impersonarlo”, di muoversi, di camminare come lui, di fare perfino i suoi versi. Come se solo identificandosi con l’animale fosse possibile riprodurlo. O come se solo tirandolo fuori da dentro di sé fosse poi possibile “rinchiuderlo” in una forma.
Una chiave di lettura di tutto ciò sta forse in una piccola statuetta in bronzo in cui Ligabue ritrae sé stesso come un “Domatore gobbo”, un personaggio da circo, buffo, strambo e deforme – come sicuramente sapeva di essere percepito dalle persone “normali” – ma che forse impersona proprio il desiderio, o almeno la speranza, di riuscire a domare le bestie interiori che gli mordevano e laceravano l’animo.
A volte ci riusciva. Uno dei suoi tanti autoritratti lo mostra con un’espressione serena, sullo sfondo di un campo rigoglioso, dunque immerso in una natura pacifica e accogliente, non selvaggia e feroce. Accanto al suo volto si libra leggera nell’aria una farfalla. Non in tutti gli autoritratti c’è una farfalla. La aggiungeva solo in quelli che gli piacevano di più. Lo chiamava “il piccolo regalo” che faceva a sé stesso. Quando le belve feroci lo lasciavano in pace per un po’, poteva guardare le farfalle volare.