
[rating=5] Compagno! Posso venire da te questa notte? Una domanda lunga un monologo.
La voce di Pippo Delbono, il testo di Bernard-Marie Koltès, l’anima dello straniero. Le parole dell’opera che debuttò al Festival di Avignone nel 1977, e che Delbono fa suo, affondano i denti nella carne immobile dello spettatore. Preda facile, volontaria al rituale che Delbono compie in teatro. Ogni volta dispiegando una nuova sottile angolazione di se stesso. Un punto di vista che diventa interrogativa inquietudine. Un anfratto oscuro illuminato come dalla calda luce di un fiammifero.
Lo spettacolo di cui parliamo è La notte, tratto dal capolavoro koltesiano La notte poco prima della foresta, andato in scena al Teatro Fabbricone di Prato, e di cui Delbono ne ha fatto una magistrale lettura accompagnata dal sottofondo musicale della chitarra di Piero Corso.
L’estratto del monologo è anticipato da una lettera intensa di François Koltès, fratello del drammaturgo, indirizzata a Delbono, che oltre ad autorizzarlo a far ciò che vuole delle pagine del fratello (cosa più unica che rara) declama il dramma dei rifugiati clandestini che ogni giorno dopo “traversate epiche e rovinose” vede sbarcare sull’isola di Ortigia.
Di un clandestino è forse la voce del monologo, che con la scusa di accendere una sigaretta ferma un passante per strada, in una notte tempestosa. Sono le voci degli ultimi, tutti, compresse in una sola ugola che domandano ascolto e ristoro. Chi meglio di Pippo Delbono può parlare di loro?
Koltès, lui che nato in Algeria e trasferitosi da piccolo in Francia, straniero si è sempre sentito, è come se poggiasse la mano sulla spalla ad ogni spettatore-compagno-straniero. Una triade nata dal barbaglio di una poesia raffinata e conturbante, eruttante lapilli incandescenti. La voce dello straniero è un fiume in piena, che rompe gli argini di una società ovattata, portando con sé violenti frammenti di deriva. Al compagno colto di spalle, travolto dal flusso di parole, non rimane che ascoltare. Il suo silenzio, è il silenzio mistificatorio di una società assente, immobile e sempre più xenofoba.
Quanto si somigliano Pippo Delbono e Bernard-Marie Koltès. Due copains d’abord di brasseniana memoria, entrambi “stranieri” in patria, punti dal veleno dell’arte e uniti dal bisogno di volgere lo sguardo verso gli esclusi.
Delbono si immerge con veemenza abituale, che non ci stanchiamo di ammirare, tra le pagine acquitrinose del poeta, portando alla luce frammenti di libertà, di riscatto, di ideali, di violenza e di amori, inzuppati nella putrescente solitudine della carne. Una voce, quella dello straniero, così attigua, resa palpabile sulla scena dall’accarezzarsi di poesia e musica, che sembra provenire dall’interno di ogni animo umano.
Il filo sottilissimo che divide compagno e straniero, è incrinato, svelandoci la pusillanime fragilità dell’uomo incapace di riconoscere sé stesso, in una strada vuota, sotto una notte di pioggia.