Trionfale Dittico Pergolesi al Litta di Milano

[rating=5] Trionfale epilogo della stagione d’opera 2015 firmata Coin du Roi. La “Société d’opéra” appena nata a Milano e già nota in tutta Italia, che ha saputo portare in scena sui prestigiosi palchi del Teatro Litta di Milano e del Teatro Goldoni di Venezia preziosi capolavori del settecento musicale, può dire di aver lasciato un segno indelebile.

Con il “dittico Pergolesi”, titolo col quale sono state allestite per la prima volta insieme in forma scenica, integrale e filologica “La serva padrona” e “Livietta e Tracollo” di Giovanni Battista Draghi, detto il Pergolesi, Coin du Roi chiude il cartellone di quest’anno, che ha offerto indubbi successi di altissima qualità.

È stata una tenace e geniale volontà quella che ha portato a proporre al pubblico italiano le opere di un’epoca ampiamente dimenticata dai grandi teatri, ma che ancora sopravvive sotto svariate forme nella cultura di massa: il ‘700 tra barocco e classicismo. L’epoca di musicisti e compositori indimenticabili, utilizzatissimi nelle colonne sonore dei film più famosi e nelle pubblicità televisive, alcuni citati anche da chi di musica poco si intende. La stagione 2015 ci ha offerto gioielli operistici di Handel, Mozart e Pergolesi, geni dell’arte di cui però, troppo spesso e ingiustificatamente, si sogliono tralasciare le composizioni meno note.

A queste lacune ha pensato Coin du Roi, di cui finora abbiamo potuto apprezzare tutte le inedite produzioni.

La fortuna del Pergolesi è sempre stata altalenante a dire la verità. Celebratissimo o del tutto dimenticato in epoche alterne, sta godendo ora di un processo di riscoperta inarrestabile, sia per l’alto valore storico della sua parabola artistica sia per la bellezza delle sue composizioni e l’estrema attualità delle opere. Di lui sono celeberrimi le opere Lo frate ‘nnamurato, La Sallustia e L’Olimpiade, le preghiere Stabat Mater e Salve Regina, oltre a La serva padrona e Livietta e Tracollo, fulgidi esempi di intermezzo buffo napoletano.

Inutile ripetere quanto pregevole sia stato il lavoro di rilettura filologica, di reinterpretazione e di orchestrazione del maestro Christian Frattima, direttore artistico di Coin du Roi. La sua mano è evidente e si lascia riconoscere: espressività, precisione, bellezza delle forme insieme ad uno spiccato senso di attualizzazione. Una modernità che ritorna, un omaggio vivido e vivace al XVIII secolo, con piglio sicuro e gusto estetico elevato.

Dittico Pergolesi

Pressoché unico in Italia, Frattima non si limita alla riscoperta dell’opera barocca, ma ne ricostruisce filologicamente spartiti e libretti a partire dai manoscritti fino a giungere ad una realizzazione più autentica e originale possibile, scommettendo sulle proprie indubitabili capacità di musicista e di direttore.

L’orchestra, di giovani e validi elementi, non cessa di stupire per la bravura, la tecnica e il generale affiatamento che traspira. Un ensemble unico, tra l’orchestra barocca e classica, versatile ed espressivo, che suona strumenti di ricostruita fattura filologica: complimenti vivissimi.

La produzione di questo “dittico Pergolesi” ha impegnato la creatività di Athos Collura (“operatore estetico” nel programma di sala), artista visivo e plastico già affermato a livello internazionale e di antico legame con la musica, alla sua prima regia operistica. Non una delle performance che caratterizzano la poetica di Collura, ma una vera e propria regia, nel profondo rispetto per la musica e il libretto, secondo una rilettura realistica e tradizionale di riuscitissimo effetto.

I due intermezzi non hanno comunanza nella trama, se non per il tema amoroso, e separatamente devono essere intesi. Tuttavia si intravedono alcuni parallelismi notevoli, quasi in simmetria, della disposizione dei numeri musicali: le arie iniziali di Serpina e Livietta hanno qualche somiglianza, ugualmente i simulati adii delle due furbe donne e infine le arie di dubbioso rassegnamento dei personaggi maschili Uberto e Tracollo. Giustificata quindi la scelta di mantenere un sottile fil rouge tra le due commediole.

La serva padrona è di fatto uno sbeffeggiamento ardito della divisione in classi della società, tema che l’opera buffa napoletana riuscì nonostante la censura ad esportare in tutto il mondo. Serpina è la serva furba, indisponente e sfrontata del ricco Uberto e si mette in testa di diventare signora sposando il suo padrone: ma come fare? Uberto non sembra essere disponibile a cedere nemmeno sottoposto alle insidie della seduzione, unico rimedio è inscenare un finto matrimonio con un fantomatico “capitan Tempesta”, che altri non è se non il servo Vespone, che paventando terribili ritorsioni intima a Uberto, il tutto per voce di Serpina, di garantire alla donna un’onerosa dote. Spinto dalla pietà e, nondimeno, dalla borsa, Uberto preferisce infine sposare la serva che cederla costosamente a un violento militare.

La trama irriverente si unisce ad una musica ironica e raffinata, i cui colori sorprendono per semplicità e sentimento. Eleganza prestata alla trivialità, il cui effetto comico e burlesco è sapientemente misurato senza mai eccedere nella banalità volgare.

La regia situa la storia nell’antichità romana, nei locali di una villa romana a Pompei: sobri, con un tocco di superfluo tipicamente partenopeo. I giochi e gli equivoci si svolgono attorno ad un letto e ad una vasca ai lati della scena, contornata da colonne scanalate e drappi rossi. Sul fondo una parete affrescata e al centro, monito di comicità, un busto che volge la schiena e le terga alla platea. Realistici i costumi, senza pretese ma ben congeniati, e di buon effetto le trovate teatrali.

Le vestigia della scenografia le ritroviamo subito dopo l’intervallo in Livietta e Tracollo (o La contadina astuta). Questa volta Athos Collura ha voluto ambientare ai giorni nostri la storia, ma con ironia: sono infatti le rovine della villa di Uberto a fare da sfondo alla vicenda dei due protagonisti. Le pareti sono ora riutilizzate per i murales dei giovani graffitari, per gli attacchinaggi della propaganda politica e come supporto di un’edicola religiosa dedicata alla Madonna di Pompei. Attorno a quel che resta del colonnato va in malora un cantiere archeologico, malandato e depredato. L’atmosfera è decadente, poliziotti sfaccendati, ambigue prostitute e giovani teppisti riempiono il palco, e del resto anche l’operina è di un’ironia ben più diretta e scanzonata, ma non meno pregevole musicalmente, de La serva padrona (basti pensare che qui Tracollo in un primo momento finge di aver nome Baldracca, termine che all’epoca aveva già assunto il significato odierno).

Livietta e Tracollo si svolge in due momenti distinti nel tempo e nello spazio. La prima e breve parte dell’operina, che la regia fa svolgere sul proscenio davanti al sipario chiuso, vede i due giovani bisticciare per un fallimentare tentativo di Tracollo, travestito da mendicante polacca, di derubare Fulvia, amica di Livietta, travestita da turista francese. Smascherato, il buontempone deve promettere amore alla contadina per evitare la galera.

Nella seconda parte Tracollo, in fuga dalla legge e da Livietta, si finge indovino. Livietta non riesce a trattenere il riso per l’ennesimo travestimento malriuscito del suo fuggiasco sposo, ma quando egli dimostra inflessibilità e resistenza contro i tentativi della donna di intenerirlo, questa si finge colta da malore e moribonda. Solo così Tracollo, spinto da commossa pietà, cala la maschera e confessa i propri sentimenti per la bella contadina.

Dittico Pergolesi

Riuscita e d’effetto l’ambientazione contemporanea, coerente e in linea con la trama. Solo davvero troppo rumorosi i giovani che armeggiano con le bombolette nell’imbrattare i muri di cartongesso e forse un po’ eccessivo voler far fingere di fumare una sigaretta drogata ai due personaggi, quasi per giustificarne la rilassatezza. Simpatici i travestimenti dei due protagonisti, semplici ma efficaci, di intenzione macchiettistica.

Ottimi gli interpreti. Eccezionale Aurora Tirotta, soprano di ottima tecnica, sempre con voce piena ed espressiva. Brava nella recitazione e a suo agio sul palco nei panni della scaltra, ma mai troppo cinica, donna di mondo. Ugualmente bravo Carmine Monaco, baritono versatile ed espressivo, ottimo nella dizione. Forse si è un po’ trattenuto nella recitazione, che avrebbe potuto essere più disinibita per questi ruoli buffi. La coppia ha funzionato e ha regalato scambi di battute e duetti di vispa qualità.

Molto bravi i due attori, mimi richiesti dai libretti, nelle parti di aiutanti muti dei protagonisti. Nino Faranna, nei panni del servo di Uberto, Vespone, poi travestito da capitan Tempesta, e infine in quelli del losco complice di Tracollo, Faccenda: bravo ad interagire con il pubblico. Cristina Castigliola, nel ruolo di una serva di Uberto, poi di uno spirito infernale e infine di Fulvia, amica di Livietta. Agile, sinuosa e dalla spiccata espressività, si è spesa in parti appositamente introdotte dalla regia con notevole maestria.

Ancora una volta entusiasmante il carattere stesso della soirée, che secondo i canoni di Coin du Roi non è mai solo spettacolo ma è anche ambiente e sensazioni: il Teatro Litta, antico palco settecentesco milanese, si è rivelato azzeccatissimo per questa particolare e straordinaria stagione operistica e in tutte e tre le occasioni Coin du Roi ha allestito appositamente un pregiato rinfresco a buffet di bevande e cibi raffinati. La ricreazione di un contesto galante ha accompagnato lo spettatore al godimento sinestetico della metafora barocca.

Ci auguriamo che questa esperienza non vada a chiudersi in un elitarismo autoreferenziale, ma che possa invece vivere di altri, ancora nuovi e più ampi respiri.

2 COMMENTI

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here