
Mi sono attardata a lungo a scrivere la recensione di Chicchignola, una delle ultime commedie dell’immenso Ettore Petrolini, portata in scena al Teatro Sala Umberto in ben due tranche: dal 19 al 22 settembre e dal 26 al 29 dicembre 2024 con la regia di Massimo Venturiello. Ma non solo. Ventiuriello veste infatti in scena anche i panni del protagonista Chicchignola.
La storia è quella di un ex impiegato, rimasto damblè senza lavoro a ormai 50 suonati e reinventatosi “pallonaro”, venditore di “giocarelli” (giocattoli e palloncini) con un carretto ambulante. La moglie Eugenia frustrata dalla caduta sociale lo tradisce col suo miglior amico Egisto, norcino arricchito e mascalzone. Chicchignola però è un uomo perbene e avrà la sua rivincita di onesto in un mondo degradato di furbi e arraffoni.
Perché Tanta attesa? Perchè Petrolini è nel mio personale olimpo di “intoccabili”. Quasi tremo in realtà nell’immaginare (forse) l’emozione che lo stesso Venturiello abbia provato nel mettere in scena Chicchignola al Sala Umberto. Proprio in quel teatro a Roma sì può dire in fondo che la stella di Petrolini raggiunse il suo apice, dopo i successi al Teatro Jovinelli. Il Sala Umberto è per me luogo di affetti e ricordi e dunque l’accoppiata con Petrolini era già di per sé carica di suggestioni e aspettative. Cose che non dovrebbero invece gravare mai su nessuno spettacolo e nessun artista. Anche perchè poi spesso sono il perfetto innesco per le delusioni e per assurdo talvolta non hanno nemmeno nulla a che fare col prodotto artistico in sé. Sta di fatto però che mi tocca scrivere di non essere uscita granché appagata dalla sala.
Tenterò di spiegarne le motivazioni, perché si tratta in ogni caso di uno spettacolo a cui non manca nessun requisito tecnico per dirsi benriuscito. Probabilmente è il colore che Venturiello ha voluto dare a Chicchignola. Altri artisti nel tempo hanno offerto un’anima, un volto diverso, potrei a questo punto dire pirandelliano (parafrasando lo stesso protagonista) a questo personaggio. Penso ad esempio all’amarissimo Mario Scaccia nella commedia del ’77 di Scarparo. Eppure lì però trovava spazio il guitto, la maschera appunto, che a me personalmente ricordava a tratti Panelli. Oppure in tempi più recenti la versione comicamente esacerbata, ma comunque godibile di Martufello.

Venturiello dal mio personale e sempre opinabile punto di vista, si pone come al centro fra queste due istanze. Forse gli intermezzi canori sulla canzone popolare romana hanno prodotto in me l’effetto di uno scollamento dalla commedia, piuttosto che rappresentarne un mezzo “fluidificante”. Ammetto tuttavia che il prologo sullo spartito di Tango Romano dello stesso Petrolini, con quelle note storte da carrillon o proprio da carretto ambulante rullato in strada per richiamare l’attenzione dei passanti, mi ha conquistata. Poi però i successivi innesti musicali hanno allontanato la mia attenzione, producendo un rallentamento nel ritmo della pièce. Quand’anche perfino un po’ di fastidiuccio.
Il mio primissimo personale metro di giudizio di fronte a uno spettacolo è la voglia di rimanere seduta e devo confessare che a tratti mi è mancata. Così come ho sentito mancarmi quel sottile gioco alla “stupidità” di Chicchignola, che in fondo è lo stesso su cui rimane sempre in bilico l’ingenuità pure di un altro personaggio immortale (anche lui “cornuto”, direbbe senza peli sulla lingua lo stesso Petrolini) come Paquale Lojacono in Questi Fantasmi.
Venturiello dipinge un Chicchignola dai contorni molto più marcati di quelli pensati dal suo autore, che ne voleva in scena un’amara parabola di “svelamento” da presunto scemo a dignitoso vendicatore. Un Montecristo della farsa che offre infine tanto ai suoi detrattori quanto al pubblico in sala una dolorosa prova di moralità. Tutto senza dimenticare di scoprire il fianco all’irresistibile cinismo romano e alla battuta pronta. Perchè dopotutto ancora citando lo stesso Chicchignola: “Ricordati che sono un’artista e non un filodrammatico.”
Tutto -mi ripeto- funziona tecnicamente, c’è da dirlo. Anzitutto le belle scene di Alessandro Chiti che dallo squallore dell’appartamento di Eugenia e Chicchignola ci porta in un paese dei balocchi reale, dove il prezzo dell’esser o del far gli asini è una condanna alla solitudine, tanto quanto sfoggiare un’intelligenza brillante. Poi i costumi, l’arrangiamento musicale di Mariano Bellopiede che fa comunque la sua parte e infine loro. Gli attori. Un quintetto d’eccellenza dove Venturiello brilla di luce propria, senza tuttava oscurare gli altri interpreti.
Su tutti Maria Letizia Gorga che dà corpo e voce a un’Eugenia stizzosa e irrisolta, Franco Mannella nei panni di Egisto, Claudia Portale in quelli di Lalletta e Carlotta Proietti nel personaggio un po’ naif di Marcella. Proprio lei in particolare ha incarnato magistralmente la moglie prima tradita e poi traditrice con la grazia e il talento di un’interprete unica. Senza contare che tutti e cinque se la cantano niente male.
Tirando le somme posso chiosare che questo Chicchignola è uno spettacolo certamente valido, che però non ha incontrato le corde più profonde del mio sentire. Complice forse pure un po’ di disturbo uditivo nelle retrovie. Alle mie spalle infatti un gruppetto di signore ha sentito l’esigenza di commentare ogni singola azione in scena. Ahimè avrei voluto che il decoroso silenzio a cui sono stata educata sopperisse invece alla battuta, dallo spirito petroliniano, che mi è ronzata sterilmente in testa per tutto il tempo…
“Ah signò ma se volevo sentì ‘a telecronata, me vedevo ‘na partita de Champions su Sky”.