Le calde parole di Delbono accarezzano Koltes

[rating=4] Un mazzo di svolazzanti fogli in mano, una bottiglia d’acqua per bere e per bagnarsi il capo, il microfono, una sedia e un chitarrista che suona: non serve altro a Pippo Delbono per lo spettacolo “La notte” tratto da un bellissimo racconto di Koltes e rappresentato al Teatro Storchi di Modena. La voce pastosa e calda, talvolta un sussurro, si alterna a parti recitate, ad urla, a strilli di bambini, per poi colorarsi di rancore, di rabbia, di solitudine. Anche se Pippo leggesse il menù di un ristorante, resteremo come ipnotizzati dalle sue pause, dai sapienti cambi di tonalità, dalle emozioni di cui farcisce quei panini talvolta vuoti che sono le parole.

Koltes ovviamente ci mette del suo, il racconto “La notte poco prima della foresta” che ispira lo spettacolo è cupo, metafisico, quasi surreale. Si racconta l’esistenza di un uomo reietto, uno straniero, una persona solitaria che insegue qualcosa o fugge da qualcos’altro. La lettera del fratello di Koltes che apre lo spettacolo focalizza l’attenzione sui barconi che sbarcano gli africani in Sicilia, “corpi che camminano”, ma lo straniero del racconto vero e proprio non è così chiaramente definibile, resta un’ombra impercettibile nell’oscurità. “Rom, messicani, handicappati, matti”, tutti gli emarginati sono “lo straniero” di Koltes. Nella lettera si sente la pietà, “non posso continuare a versare lacrime inutili”, la rassegnazione, “non ci si può opporre all’esodo”. Nel racconto che segue, tutto ciò sparisce. Si percepisce l’impotenza ma con i colori della rabbia, “Che cosa posso fare io contro tutto questo?”, “hai visto un posto dove ti lasciano in pace?”, il lavoro diventa la sopravvivenza ma anche il modo di “farci portar via da un soffio di vento da un’impalcatura”, la vita diventa una fuga dal deserto alle nostre spalle, “una prigione senza mura”.

Pippo Delbono - ph Lorenzo Porrazzini

“Che cosa posso fare io contro tutto questo?”, la rabbia si alterna alla frustrazione. Lo straniero vorrebbe solo una stanza per dormire una notte, ma non tutta la notte, solo una parte. Il lavoro non basta a pareggiare i conti, a riequilibrare le differenze, “sempre straniero sarai”, ci si sente braccati, “mi riconoscono come straniero e mi rincorrono”, “siamo come degli uccelli strani che non esistono da nessun altra parte”, in preda ad un “generale dalla foresta” che spara “a tutto quello che si muove e che vola”, l’uomo è un uccello che non può volare, costantemente cacciato e spinto allo sfruttamento, “mi spavento, corro, tanto è quello che vogliono”. Le emozioni si susseguono in modo irregolare, come in un flusso di pensieri. Lo straniero tenta di mimetizzarsi anche assomigliando ai “normali”, ai generali che sparano: “dammi i tuoi vestiti, il tuo modo di camminare”. Alla fine non resta che la rabbia, “ne ho le palle piene delle loro facce, picchierò anche io” e in quell’istante “tutto si ferma, corro corro corro, diventare come una colomba, volare, i soldati mi sparano ma non mi colpiscono”.

Lo spettacolo si chiude con la lettera di Koltes alla madre che disapprova il racconto. Questa parte mostra il lato umano dello scrittore, il rapporto forte con la madre, il dolore e le giustificazioni per le sue rimostranze.

Il collage di parti molto diverse (lettera del fratello, racconto e lettera alla madre) risulta particolarmente riuscito, Delbono è bravo a passare da una cosa all’altra con naturalezza, mostrandoci sfaccettature diverse dell’autore colte da persone diverse. Il lavoro di analisi è marcato, Delbono interiorizza le fobie e le pulsioni di un emarginato e le mostra sul palco, in modo crudo e schietto. D’altra parte il fratello di Koltes, l’unico erede dei diritti di divulgazione delle opere, era stato molto ferreo e preciso nell’affidare questo racconto proprio a Pippo Delbono: “fanne ciò che vuoi … e io l’ho fatto”

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