
Sembra un giardino, il palco del Teatro San Ferdinando, qui a Napoli, un bel colpo d’occhio che accoglie lo spettatore che entra in sala per Assunta Spina per la giovane e accorta regia di Pino Carbone: le rose coprono tutte le vecchie assi, originando una macchia color rosa in cui s’inserisce a sinistra una panchina, a destra un tavolino di legno e alcune sedie, arredi di legno da giardino, appunto, che contrastano con gli abiti, le parrucche, i gran cappelli dei costumi che vedi appesi in fondo, insieme a diverse altre sedie.
Ma il contrasto maggiore è col parallelepipedo al centro, sorta di casa di bambola dalle pareti trasparenti, sorretta da pali in legno appoggiati sull’assito, come una palafitta, o come certe cabine degli stabilimenti balneari o, ancora, le vetrine d’Amsterdam delle strade a luci rosse: una stridente, metallara modernità si riflette nella parete di lucido alluminio del fondo, su cui si aprono tre porte ora chiuse, nel soffitto freddamente acceso da una lunga serie di nudi neon, nel plexiglas sorretto da infissi metallici, come talvolta vedi nelle verande abusive di periferia, che chiude completamente l’ambiente.
Si determina così, volutamente, sapientemente, grazie alle sempre talentuose matite di Luigi Ferrigno, un “esterno”, che si nutre di penombra, di libertà ma pure di sfumati contorni, d’inclusione ma pure di disperata passione e di disilluse speranze, che circonda, chiude, abbraccia, come la terra la bara, la piccola scena al centro, che subisce la luce livida della realtà finendo a tratti per rivelarsi con millimetrica ed esatta precisione, fuor di metafora, fuor d’abbellimento o di belletto, cruda e tagliente come il dolore che scava la carne.
Entrano gli attori, con i loro ordinari vestiti, i quotidiani pensieri, la feriale umanità, cominciano a vestirsi con gli abiti di scena appesi lì in fondo, a truccarsi, il passaggio è volutamente lungo, graduale, hai modo d’assaporare lentamente lo sconfinamento in un mondo altro che, pure, conserva, nei modi, nel nocciolo duro delle emozioni e delle verità, se non nel variabile contorno delle situazioni contingenti, un che di riconoscibile e d’attuale, di comprensibile fratellanza con chi sta da questa parte della quarta parete.
Donne in esagerati, esorbitanti, enfatici costumi, disegnati con ironia da Annamaria Morelli – l’ironia è una delle principali chiavi di lettura della regia, rende sopportabile il dolore, alleggerisce l’ansia, cura perfino i morsi della fame, soprattutto strania lo spettatore – ti riportano alla Belle Époque della Napoli dei giorni di Di Giacomo, non certo dalle parti di Gambrinus e di Toledo, alla città maleodorante e oscura, invece, di Sant’Aniello Caponapoli, Speranzella, Ccavajole, che poi, di tanto in tanto qui, a Castelcapuano, si ritrovava e tuttora si ritrova, al Tribunale dove subire la giustizia degli altri.
Entra nell’ambiente al centro Diodato Sgueglia, ufficiale giudiziario col suo camice grigio d’ordinanza (un proteiforme e prontissimo Renato De Simone), «si fuma, sono le quattordici, è inverno, il mormorio è continuo, anzi, a levata di tela, è un alto e confuso vocìo», dice la didascalia di Di Giacomo, qui non c’è alcuna tela da “levare”, ma tutto è pronto per cominciare, non prima però che lei, la biancovestita primadonnna, lei, Assunta Spina, la bravissima Chiara Baffi – che l’anno scorso fu una fantastica Gesualda nel Ferdinando di Ruccello – dia inizio allo spettacolo con un formidabile urlo, al centro della scena, fra le rose, mentre il pubblico s’abbaglia alle potenti luci gialle che s’accendono sul fondo.
Eccolo, allora, il “sipario che si alza”, un urlo feroce, protesta, dolore, richiesta, urgenza: Sgueglia sembra scuotersi a quel grido, riassume in sé tutte le parti che nel dramma restituiscono l’animazione dell’interno «della grande Sala del Tribunale penale a Castelcapuano», il vociare concitato d’avvocati e uscieri, venditori di cerini e popolane, preti e contadine, appelli di testimonianze, spezzoni di procedimenti. Così la varia umanità che la regia ha voluto riassunta nel corpo d’un unico attore si confonde, perdendosi, smozzicando frasi e parole, rendendole confuse perché in parte coperte con un motivo che, ad alto volume, accompagna quel lungo monologo, overture che interpreta la pietà e il sogno, melodramma che ormai urge, si gonfia, sollecita le nostre emozioni.
Fino all’arrivo di Donna Concetta (Francesca Muoio, che sarà pure Ernestina, stiratrice, obbedendo alla caratteristica di questo allestimento, in cui nove attori interpretano una ventina di personaggi), madre di Michele Boccadifuoco (caratterizzato come meglio non si potrebbe da Claudio Di Palma). Realizziamo allora, apprendendolo da Donna Emilia Forcinella (Alessandra Borgia dalla perfetta recitazione naturale), che Michele è dentro l’aula, in giudizio perché, stanco dei continui tradimenti d’Assunta, l’ha sfregiata.
Entra anche Assunta, con un vistoso fazzoletto bianco che «le si annoda sulla cima del capo e le passa sotto il mento, nascondendo una ferita alla guancia destra», «benuta cca ncoppa a fa n’operabona!»; scherza, l’accorta e ironica regia, e ormai il gioco è chiaro agli spettatori, lieti di partecipare anch’essi, come in una vera opera lirica il regista crea forme chiuse, da una parte, ben distinto, il recitativo in cui l’azione avanza, poi tutto, nei momenti ad alta densità emotiva, rallenta, il pathos si coagula in duetti, trii, concertati che hanno dentro l’urgenza e la furia di comunicare stati d’animo, tormentose parole che trasmettono la necessità di vivere e distinguersi come superando, se possibile, un copione già scritto inderogabilmente, come la legge, come l’amore.
Così, un’inderogabile pulsione – perversione dell’istinto – spingerà Assunta tra le braccia di Federigo Funelli (uno strepitoso Alfonso Postiglione), vice cancelliere che si adopera perché Michele, condannato a due anni, resti a Napoli e non venga tradotto ad Avellino: la determinazione di continuare a vedere Michele conduce, eterogenesi dei fini, Assunta nel letto di Federigo. Il romanzo popolare che fu di Salvatore Di Giacomo, il turgido melodramma che ne ha cavato Pino Carbone è al suo culmine, la vetrina è pronta ad addolcir le luci, i neon a mutarsi in paralumi dalla luce calda della casa-stireria di Assunta, dove lei riceve il suo nuovo amante: nel vicolo, come nella casa vetrina, tutto avviene sotto gli occhi di tutti, sul filo di una trasparenza che è tuttavia menzogna (Federigo è sposato e Assunta non lo sa) e poi gabbia, prigione, definitiva condanna.
Come quella che aspetta Michele: dopo quasi due anni, tre mesi in anticipo, viene scarcerato la vigilia di Natale all’insaputa di tutti. Andrà alla casa di vetro di Assunta, che invano sta attendendo Federigo e che non avrà cuore di negare il suo nuovo legame, condannando così, tuttavia, Michele, “moralmente” costringendolo ad accoltellare Federigo, in un finale che gioca tutto sull’ironia e, insieme, la potenza del teatro: l’uccisione di Federigo, con lo stesso coltello che aveva sfregiato Assunta, avverrà in strada, tra le rose, una tovaglia rossa come una muleta sarà di volta in volta sangue, eccitazione, fuoco.
Il finale verrà ripetuto tre volte, sulle fortissime e gonfie note della Marcia funebre dalla Sonata n. 2 di Chopin, in una turgescente, pompier, barocca, fiammeggiante trascrizione per banda, densa come il miele, segno, ancora una volta, d’una popolanità forse rozza ma sentita, nella sua estrema esaltazione ed esagerazione, in un epilogo che non fa che confermare una condanna atavica e inesorabile. Così, quando la guardia chiederà chi è stato, Assunta non avrà nemmeno la forza di pronunciare quel’«io… brigadié…» che chiude il dramma e lo spiega a un tempo, solo una mano e un dito che si alza timido, mentre le luci si spengono.