
[rating=3] In fondo Ferzan Özpetek, che de La traviata al Petruzzelli è il regista, aveva visto giusto nel 1999, seppur per paradosso: in quell’anno il nostro gira infatti Harem suare, avventurosa storia intrisa d’Oriente e belle époque: proprio all’inizio film si vede una Traviata nel privato teatro del Sultano a Istambul. Obbediente al capriccio del monarca, in quell’allestimento Violetta non morrà: alle parole finali “ah ma io ritorno a vivere… oh gioia!” corrisponde una vera e propria guarigione e un vissero-felici-e-contenti da favola borghese. Col che si dimostra che anche i Sultani, nel loro grande, hanno un cuore. E, inoltre, che quell’improbabile – e falso – finale è paradossalmente più vicino, in quel posticcio allestimento cinematografico, allo spirito del melodramma verdiano, rispetto a quello sovraccarico e falsoromantico e decadente della rappresentazione cui abbiamo assistito. Ma andiamo con ordine.
Ambientato, come in Harem suare, nel 1910, non ad Istamul ma canonicamente a Parigi, in preda tuttavia alla mania orientaleggiante di quegli anni, La traviata di Özpetek era già stata presentata a Napoli l’anno scorso, suscitando anche lì all’epoca non poche perplessità. Si badi, tuttavia: chi scrive non è per nulla allergico alle regie – per così dire – anche molto “creative”. L’opera trasferita in lontanissimi passati, in remoti futuri, in spazi esotici e alieni, spesso mi diverte molto e suggerisce nuovi punti di vista e sottolinea visioni particolari. Ciò che conta è non tradire lo spirito dell’opera e la sua musica. E lo spirito di Traviata è la redenzione: due formidabili forze si fronteggiano, da un lato il fronte familiare e benpensante e provinciale che s’incarna in Germont, dall’altro quello libertino e godereccio e volgare che è rappresentato dal mondo degli amici di Violetta. Ambedue queste visioni, a pien diritto componenti entrambi della società francese – ma in fondo universale – dell’epoca, soffrono dei loro egoismi e miserabili ipocrisie. Si rappresenta “la cupa e languida fine di un’epoca di cui Violetta è simbolo decadente, ultima eroina vittima di un codice morale che sta mutando nella vita eccentrica e frizzante della Belle Epoque”, afferma il regista: il fatto è che Violetta lascia la “vita eccentrica e brillante” di prima ma – al contrario della Margherita del dramma di Dumas da cui deriva – rifiuta di sottomettersi al codice morale borghese, compiendo invece una scelta terza, che è quella dell’amore. Scelta quanto mai “romantica” – al di là del senso deteriore da fiction assunto oggi dal termine – e del tutto inusuale e rivoluzionaria. Chi si converte, attraverso un percorso del tutto sconosciuto al romanzo di Dumas, è semmai Germont: la sua dolorosa dignità è il perno su cui Verdi costruisce infatti l’apoteosi finale di Violetta; Violetta non si pente perché semplicemente non ha niente di cui pentirsi: questa formidabile intuizione, che è totalmente verdiana, fa di Violetta un personaggio universale e moderno del tutto diverso da Margherita, costretta, lei sì, ad arrendersi alle ipocrisie della società e a trovare unico riscatto nella morte. Morte che, è stato da tanti notato, avviene per Violetta sol per mere esigenze teatrali: non ha alcun valore, nemmeno implicito, di pegno di riscatto. Tutto questo era pienamente avvertito dai contemporanei, ed era ovviamente potentemente disturbante.
Ebbene, a dirla tutta, Özpetek sembra aver scambiato Violetta per Margherita, e dove c’è redenzione si vede conformismo, dove libertà volgarità, dove sacrificio morte. Colori, luci, costumi, trucco, tutto concorre a veicolare un messaggio perbenista e sterilmente moralista che bene andrebbe per La Dame aux camélias: avrebbe fatto meglio, il regista di Harem suare, a recuperare quel sogno orientale di Violetta che evita la morte – come si è detto del tutto concettualmente inutile – piuttosto che costruire questo polpettone con finanche estreme cadute di gusto: non si può metter nelle mani di Germont a colloquio con Violetta una giarrettiera – per far intendere che, esercitando il suo mestiere, Violetta l’avrebbe conosciuto ben prima del figlio – e far passare il volgarotto gesto come assoluta novità e intuizione astuta. È roba da vaudeville, al massimo Feydeau… L’ha ascoltato, quel duetto, il regista Özpetek? Ha avuto magari idea che durante quell’incontro succeda qualcosa? Sa che sono stati scritti fiumi di parole per spiegare o meglio solo descrivere quel sotterraneo, inconscio, inconfessato, insubordinato improvvido imprevisto feeling tra l’austero gentiluomo di campagna e la donna innamorata del figlio – già non più disprezzata cocotte? Sa che tutto questo è scritto nella musica da un secolo e mezzo? E forse, più che ispirarsi all’estetica proustiana – epidermica sensazione che si limita all’adeguamento superficiale al gusto dell’epoca – valeva la pena meditare su ciò che Proust – più facile parlane che leggerlo – affermava di Traviata: “… va all’anima. Verdi ha dato a La Dame aux camélias lo stile che le mancava”. Basterebbe questo per comprendere che distanza ci sia tra quello che si è visto e quello che avremmo potuto vedere.
Non che quello visto sia tutto da buttar via, intendiamoci. Lo spettacolo possiede comunque una sua forza visiva notevole, che trae il suo vigore da certi estetismi “cinematografici” anche efficaci: così lo spettacolo si apre con il primissimo piano – proiettato come al cinema – della protagonista, con gli stilemi propri del cinema muto. E continua con le fastose belle scene di Dante Ferretti che ricostruisce luoghi d’inafferrabile composta bellezza, fino al terz’atto, col bianchissimo letto al centro della scena, nel mezzo d’un buio ambiente affidato alla personale fantasia di ognuno. E poi gli interpreti, a cominciare da Daniele Rustioni, di cui già lodammo l’attento gesto nella direzione del Falstaff ronconiano qui a Bari, che conferma d’essere ormai ben più d’un promettente giovane conduttore: a poco più di trent’anni, il direttore musicale della Fondazione Petruzzelli esegue la complessa partitura con piglio e sicurezza da veterano. E che dire di lei, Violetta? È uno di quei personaggi riservato alle grandi interpreti che, sole, possono cantare con le sue “tre voci”: Elena Mosuc è una cantante – delle poche – in grado di farlo egregiamente, dando voce alla gioia, al dolore e alla morte con tecnica magistrale, dai filati e sovracuti brillanti, alla dolorosa malinconia, per arrivare a un perfetto “Addio del passato” sofferente lacerato e lacerante. Accanto a lei l’Alfredo di Francesco Demuro dimostra emissione sicura e chiarezza della dizione. E il mobile, intenso fraseggio del Germont di Giovanni Meoni dona al personaggio la sua cifra stilistica, al di là degli errori di regia di cui si è detto: “Di Provenza il mare il suol” ne esce trasfigurata e recupera intatto il fascino di cui è dotata, tra rabbia malcelata e incontaminati fantasmi della memoria. Molti gli applausi che il pubblico barese riserva a tutti gli interpreti.