
[rating=4] Nella poliedrica programmazione della stagione scaligera 2015-16 ha fatto capolino un titolo che attendeva d’essere ripreso sin dal 1926: “La cena delle beffe” di Umberto Giordano.
Opera di intenso ma breve successo, esordita sotto la direzione di Toscanini e con un cast stellare, che ebbe la sfortuna di vivere un’epoca di censure e di forti limitazioni artistiche e che, anche perché adombrata da capolavori concorrenti, fu anzitempo consegnata alla memoria degli archivi.
Giordano compose “La cena delle beffe” nel 1924, traendo ispirazione dal dramma in versi omonimo di Sem Benelli, autore eccentrico inviso al regime fascista, fonte diretta anche per il film di Alessandro Blasetti del 1942. Lo stesso Benelli fu chiamato ad adattare il suo lavoro a libretto d’opera, che ne rispetta in effetti alla lettera un larga parte: “La cena delle beffe” risulta così un raro esempio italiano di fedele trasposizione in musica di un dramma in prosa. Unici accorgimenti ad hoc, qualche accorciamento generale e piccole e brevi interpolazioni, dovute alle esigenze del compositore.
Il soggetto è tratto dalla produzione letteraria di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, scrittore fiorentino di epoca rinascimentale di stile satirico-umoristico, noto anticonformista e tra i fondatori dell’Accademia della Crusca. Dalla sua raccolta di “Cene” Sem Benelli ricavò il soggetto del suo dramma, incentrato sulla beffa, o meglio vendetta, ordita da Giannetto Malespini, affiliato alla famiglia de’ Medici, ai danni di Neri Chiaramantesi e suo fratello Gabriello.
“La cena delle beffe” ha ben poco di ironico e risente pienamente del velo di malinconico pessimismo tipico del verismo italiano. Peculiari dell’autore sono i cenni di psicologismo e una generale amoralità cinica: a reggere la trama sono l’accanimento morboso e livoroso di Neri e Giannetto l’uno contro altro, nella totale assenza di personaggi positivi.
Umberto Giordano, d’altro canto, sfrutta il soggetto per elaborare armonie in continua trasformazione, giustapponendo motivi quasi comici ad altri più tragici, con ritmi sempre piuttosto sollevati e la sua inconfondibile sapienza nel mescolare e confondere la tradizione musicale italiana con il gusto europeo. Il risultato è un gioiello di sintesi fra sinfonismo e teatralità, degno di essere rivalutato in tutto il suo splendore.
La trama è esile, ma molto ben intrecciata. Il Tornaquinci è stato incaricato da Lorenzo de’ Medici di organizzare una cena di riappacificazione tra Giannetto Malespini e Neri Chiaramantesi. Ques’ultimo, insieme al fratello Gabriello, aveva infatti organizzato un agguato a Giannetto legandolo in un sacco e stilettandolo sulle terga, dopo averlo quasi affogato nell’Arno. Ulteriore onta di cui il Malespini non riesce a farsi pace, è che la donna dei suoi sogni, Ginevra, gli è stata sottratta proprio dal Chiaramantesi: la cena dal Tornaquinci è in realtà l’occasione per innescare gli ingranaggi di una vendetta definitiva, tantopiù che Giannetto sa che Gabriello, partito per Pisa, è anch’esso invidioso della liaison del fratello.
Tra una parola di sfida e l’altra, essendo chiaro a tutti che la riappacificazione è impossibile, Giannetto lancia una provocazione a Neri scommettendo ch’egli non abbia il coraggio di andare in Vacchereccia armato di tutto punto, cercando rissa tra i giovani poco raccomandabili di quel quartiere. Neri, sbruffone arrogante e prepotente, accetta ben volentieri la sfida e se ne va. Giannetto ride di gusto e ordina al suo fido Fazio di portargli le vesti di Neri e di accorrere subito in Vacchereccia spargendo bene la voce che Neri sia uscito di senno.
La mattina seguente nella casa di Chiaramantesi la fantesca Cintia racconta a Ginevra che il padrone è stato tratto in arresto mentre armeggiava in Vacchereccia del tutto ammattito. Ginevra non sa capacitarsi della cosa, poiché è convinta di aver passato la notte a letto con l’uomo. Nel suo alcova, però, ha giaciuto proprio Giannetto, entrato in camera furtivamente nella notte con i panni trafugati al Chiaramantesi. Ginevra non sa che dire, ma la sua indole volubile e lussuriosa la fa cedere alle avances del Malespini: la notte con questi le è parsa la più appassionata e amorevole di sempre e Neri si dice che sia impazzito, trattenuto in prigione, così è disposta a diventare l’amante di Giannetto.
Irrompe Fazio, annunciando che Neri è fuggito dalle carceri e sta rincasando furioso. Giannetto corre a cercare altri servi e a chiamare le guardie dei Medici. Ginevra è gelida di paura, ma proprio quando Neri la sta per aggredire in camera sua, viene salvata dagli uomini del Malespini che circondano e immobilizzano il Charamantesi. In faccia all’arrestato, Giannetto confessa e rivendica la notte di piacere con Ginevra. Dopo aver tratto in catene Neri, Fazio informa il Malespini che Gabriello, tornato anzitempo da Pisa, cerca lui e Ginevra per reclamare verità e giustizia per il fratello.
Intanto, segregato e malconcio, il Chiaramantesi è legato ad una sedia, mentre il Dottore suggerisce a Giannetto di convocare i nemici di Neri e tentare di rinsavirlo attraverso i bruschi confronti. Giannetto fa venire una schiera di vittime del rivale, che approfittano della sua condizione di prigioniero per schernirlo e malmenarlo. Tra costoro c’è Lisabetta, donna un tempo sedotta e poi abbandonata da Neri. Egli le spergiura eterno amore, scongiurandola di liberarlo: Lisabetta, convintasi ch’egli non sia malato di mente, gli suggerisce di fingersi pazzo mite, così ch’ella possa farselo affidare in custodia dal Dottore. Giannetto, che ha mangiato la foglia, arricchisce ulteriormente la sua beffa: dichiara in faccia a Neri, apparente matto innocuo, che la sera stessa incontrerà Ginevra nella sua camera da letto. Il Malespini, infatti, coglie l’occasione del rientro anticipato di Gabriello per convincerlo ad attendere la sera ed entrare in casa dell’amata con i suoi panni, segretamente sperando che nello stesso tempo sopraggiunga Neri.
La previsione si avvera: Neri, approfittando della riottenuta libertà sotto la blanda custodia di Lisabetta, irrompe nella camera di Ginevra e la minaccia di morte, attendendo il sopraggiungere del suo nemico per assalirlo mortalmente. All’insaputa dei due, nel buio della stanza, a varcare la soglia è però Gabriello, che viene colpito mortalmente dal fratello.
Subito giunge Giannetto, con Fazio, e svela a Neri la terribile circostanza. Il senno, questa volta, lo abbandona per davvero: incredulo e irretito uccide anche Ginevra. Giannetto, inorridito da se stesso, al colmo della soddisfazione, maledice di non riuscire a commuoversi di tanto dolore.
La regia di Mario Martone trasferisce le vicende dalla Firenze medicea alla Little Italy del proibizionismo americano, razionalizzando il clima di continua tensione e di inspiegabili odio e violenza nel quadro di una presunta etica mafiosa. Non più la cieca, gratuita e sprezzante rivalità tra due gentiluomini fiorentini, sotto l’adombrante ed evocata presenza di Lorenzo il Magnifico, ma una vera e propria guerra tra famiglie della malavita organizzata.
A ragione di questa reinterpretazione il finale viene pesantemente stravolto: poco prima delle note finali irrompe silenziosamente sulla scena Lisabetta, con altri sicari, e fa strage di Giannetto e dei suoi uomini. In questo modo l’ultima parola è data a Neri, che parrebbe aver architettato la “beffa” un passo avanti al Malespini, e a risolvere la faida è addirittura una donna, genere che d’altro canto la protagonista Ginevra non decora certamente di lustro e dignità.
Le vicende si svolgono interamente all’interno dello stesso palazzo, ricostruito in sezione su tre piani che scorrono in verticale durante lo spettacolo, secondo le ambientazioni del libretto: lo scantinato dove viene segregato Neri, il ristorante di Tornaquinci, l’appartamento del Chiaramantesi dove vive Ginevra. L’idea dei palcoscenici sovrapposti ci ricorda la Bohème di Zeffirelli ed è interessante, sebbene qui nasconda qualche incongruenza (es. perché le architetture esterne e dei tre piani non combaciano perfettamente tra loro? Com’è possibile in una situazione di faida mafiosa che Neri amoreggi in un appartamento sovrastante un ristorante affiliato alla famiglia rivale? Come si spiegano i lassi di tempo dovuti agli spostamenti da un luogo all’altro, se si tratta invece semplicemente di salire e scendere le scale?).
Altre incongruenze inficiano un’intuizione registica che poteva pure essere interessante. Neri dovrebbe andare in Vacchereccia in armatura, invece ci va con un coltello, una mazza chiodata e una pistola, portata in una fondina ascellare, peraltro male indossata. Lo scambio dei soprabiti tra Neri e Giannetto e tra questi e Gabriello viene del tutto messo in secondo piano. I servi di Giannetto lanciano un secchio d’acqua in faccia a Neri, che è però vuoto. Il Dottore porge ai nemici di Neri delle lamette da barbiere, con le quali questi infieriscono sul Chiaramantesi senza che ne esca sangue. La “lucerna” nella camera di Ginevra è spenta. Neri si nasconde fuori dalla finestra e non nella “stanza dietro la tenda”. Eccetera… tutti dettagli che, visti in Prova Generale, auspicavamo trovassero soluzione in recita.
A marcare le pecche è il contrasto con altri dettagli congeniati fin nelle minuzie, che la scenografa Margherita Palli ha ricostruito basandosi su foto d’epoca e sui film di genere gangster come quelli di Coppola e Scorsese. I clienti del ristorante, dalle cui vetrate traspaiono a rovescio le insegne, mangiano davvero spaghetti alla napoletana. Gli attori che circondano i protagonisti si atteggiano professionalmente da tirapiedi dei propri boss. L’appartamento, il ristorante e lo scantinato sono decorati con oggetti elaborati nei particolari. Dalle finestre e ai lati del finto palazzo si intravedono i caseggiati dirimpetto. Infine, tre donne vestite di nero, come le tre Parche, aleggiano di frequente sulla scena: una citazione delle sciagurate personificazioni di antica memoria del destino. Precisi e particolareggiati anche i costumi di Ursula Patzak, che ci portano direttamente nella New York de “Il Padrino”, “C’era una volta in America” o “Quei bravi ragazzi”.
Ulteriori elementi che confermano l’estrazione cinematografica della regia di Martone sono i cenni splatter nel finale, con le sventagliate di mitra di Lisabetta e dei suoi gorilla, e i riferimenti pressoché espliciti al sesso, prima quando Cintia simula una masturbazione e poi quando Ginevra, prototipo di maschilismo, per implorargli pietà si inginocchia davanti a Neri slacciandogli e abbassandogli i pantaloni.
La provocazione è altissima, e suscita lo stupore curioso e malizioso del compassato pubblico scaligero.
La vividezza della regia, nonostante le incrinature di cui abbiamo fatto cenno, fa il paio con le linee di canto nitide e lineari, spesso contrastanti rispetto alle melodie dell’orchestra, che bene valorizza il maestro Carlo Rizzi. La sua bacchetta percorre snellamente e vivacemente la partitura, senza tentennamenti di maniera, e conferma la predilezione di Rizzi per il repertorio verista. Dal podio il direttore ha guidato un’orchestra in ottima e smagliante forma.
Eccellente il cast. Grande prova di vocalità ed espressione per il tenore Marco Berti, Giannetto Malespini, in una parte difficile, sempre giocata sui registri medio e acuto, con una tessitura che mette a dura prova timbro e tecnica. Berti convince il pubblico e la critica, esponendo appieno le proprie qualità e potenzialità.
Tripudio anche per il Neri Chiaramantesi di Nicola Alaimo, baritono versatile e di buona verve teatrale. Alaimo convince per timbro, tecnica ed espressione ed entra con perfetto agio nel personaggio del capofamiglia malavitoso.
Molto bene Kristin Lewis, soprano, nelle vesti di Ginevra. Cantante in rapida crescita, che riesce a celare gli intrascurabili difetti di pronuncia e di dizione con una recitazione molto appassionata. Forse impersona una Ginevra fin troppo lussuriosa e frivola rispetto al dovuto, ma è certamente in linea con l’idea registica generale.
Buona prova anche per il Gabriello Chiaramantesi del tenore Leonardo Caimi, con voce potente e squillante. Bene il basso Luciano di Pasquale, il Tornaquinci, fondamentale nel primo atto. Ugualmente importante la parte ben eseguita dal baritono Bruno de Simone, nelle vesti del Dottore durante il terzo atto. Notevole l’esibizione della soprano Jessica Nuccio, Lisabetta, con voce piena ed espressiva, mentre passa da compunta e modesta donna afflitta dal dolore, a scaltra salvatrice di Neri. Tra le parti minori campeggiano il Fazio del baritono Frano Lufi, convincente anche come attore, e la Cintia di Chiara Isotton, mezzosoprano, sempre più avvezza a questo genere di ruoli sul palco del Piermarini.
Hanno fornito ottima prova di sé le brevi e fulminee esibizioni di Francesco Castoro, Trinca, di Edoardo Milletti, nella duplice veste di Lapo e di un cantore, e degli allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala Giovanni Romeo, Chiara Tirotta e Federica Lombardi, rispettivamente Calandra, Laldomine e Fiammetta.
Scroscianti gli applausi degli spettatori, soddisfatti da uno spettacolo raro e di altissimo impatto emotivo.