
Terzo titolo della stagione areniana: Turandot.
Non deve essere facile rappresentare questo titolo di grande richiamo, sopratutto se a fare da richiamo in questo caso è un’aria sola o, meno ancora, una nota sola… Gli spalti sono gremiti e ancora le code per entrare sono piuttosto lunghe quando mancano pochi minuti al primo gong. Tantissima gente accorre a sentire il famoso “vincerò!”, ma il problema è che il “vin-ce-rò!” arriva solo al terzo atto e dopo prima di poter andare a casa manca ancora più di mezz’ora… Insomma non dev’essere facile tenere incollate le persone, migliaia di persone, su quelle gradinate al caldo aspettando il loro momento preferito cercando di convincerle che tutta, ma proprio tutta, la Turandot è un’opera magnifica! Bene, Zeffirelli riesce nella magia e ci tiene incollati alla poltrona con uno dei suoi spettacoli più belli. Siamo di fronte infatti allo Zeffirelli migliore, quello che davvero riesce a farci sognare. Forse complice in questo successo è anche l’atmosfera fiabesca del racconto della principessa di gelo, comunque sia Franco Zeffirelli firma una regia spettacolare, ricca e opulenta ma mai ridondante. Ci fa volare in una Cina mai esistita, se non nelle fiabe e nei racconti.
Centinaia di personaggi animano questa Pechino… Le scene sono imponenti e magnificamente realizzate, il senso di stupore non può che coinvolgere anche i palati più esigenti, come il mio che decisamente non posso definirmi fan di questo tipo di proposte registiche. La regia non tende a concentrarsi su qualche aspetto particolare della vicenda facendo su questo il proprio focus narrativo, questa è raccontata in modo logico e semplice, così come si farebbe con qualunque fiaba, giocando con forme e colori, intessendo ogni episodio in un magnifico intarsio di lacche lignee. Ottima la direzione dei protagonisti e delle masse che affollano e sgombrano la scena coerentemente e con precisione ed in poco tempo, segno di un ottimo lavoro di pre-produzione. A completamente di tutto i bei costumi di Emi Wada ed il lighting design di Paolo Mazzon.
Ha sicuramente giocato a favore anche la prova dell’itera compagine musicale. Prima su tutti la direzione, passatemi il termine, “magica” di Daniel Oren. Raramente ho sentito l’orchestra suonare così bene! La direzione di Oren tende a privilegiare gli aspetti emotivi della vicenda in buca, così che la modernità della musica raffinatissima di questo Puccini diventa un tutt’uno col teatro. Musica al servizio quindi di una fiaba che ci trasporta in posti lontani della nostra anima. Ottime tutte le sezioni in buca che lo seguono in ogni intento siglando una prova matura e sensibile.

Quanto al cast vocale, nella serata vista da noi il 18 luglio, sfilava un tris d’assi.
Il ruolo di Calaf è sostenuto dal tenore turco Murat Karahan, già apprezzato Cavaradossi della stagione 2017. La voce è molto bella e pur possedendo, il tenore, il temperamento eroico adattissimo al ruolo del principe ignoto sfrutta nel contempo un timbro lirico, duttile e molto fresco che lo rende ideale e credibile nella parte del giovane appassionato. Come già abbiamo potuto apprezzare a Teatro, il lavoro di Murat si esprime, non soltanto nella spavalderia del registro acuto che peraltro resta abbagliante, ma nel continuo lavoro di chiaroscuro con cui risolve i suoi personaggi. Così se sicuramente era ben costruita la celebre aria “Nessun dorma” (tra l’altro generosamente bissata a furor di popolo) nel “Non piangere Liù” forse tocca il momento migliore del suo Calaf.
Anna Pirozzi in Turandot ha siglato dalla sua una prova unica. La voce di soprano drammatico d’agilità ormai la conosciamo bene e ci regala sempre grandi emozioni. Il timbro è pastoso e nonostante il grande volume è capace di smorzature e pianissimi da fuoriclasse. Così la sua “reggia” e tutta la scena degli enigmi diventa vocalmente un monumento. Chiaramente alla base c’è una grande studio che porta questa artista ad affrontare con successo un repertorio tra i più difficili, ma Anna ha qualcosa di più: riesce a cogliere l’umanità di ogni suo personaggio e, sopratutto, riesce a raccontare al pubblico questa “umanità”. Persino nella principessa di gelo, tutta avvolta in una austerità sua propria, riesce a sgelarne l’anima ed a convincere il pubblico. E’ un vero peccato che Puccini non abbia scritto lui il finale dell’opera perché Anna avrebbe incarnato alla perfezione la trasformazione di questa donna.

Puccini però ha fatto in tempo a scrivere tutta la musica di Liù, che si aggiudica così la palma di vera protagonista dell’opera. A sostenere questo cimento è chiamata Eleonora Buratto: voce di lirico puro tra le più interessanti dell’attuale panorama, non solo italiano. Ascoltandola ci si commuove e si parteggia per il personaggio più sfortunato della vicenda: convince in tutta la sua tenerezza ed in tutto il suo coraggio. La Buratto sfrutta dal par suo un timbro che con gli ultimi anni è andato via via irrobustendosi quindi ora, lirico puro, le permette un’emissione sonora, rotonda e carezzevole. La voce dolce si dipana nelle pagine pucciniane assolvendo al meglio che si possa desiderare agli intenti di Puccini nella costruzione di un fraseggio tutto giocato a fior di labbra e sostenuto dal fiato che fa intendere al pubblico, già dalle prime battute, la caratura di questa artista.
Con tre protagonisti del genere, si sono difesi bene anche il resto degli artisti chiamati a completare il cast. Antonello Ceron come Imperatore Altoum e Giorgio Giuseppini nei panni di Timur hanno sostenuto molto bene il proprio ruolo. Affiatati e di ottimo livello i tre Ping Pong e Pang rispettivamente Federico Longhi, con menzione speciale, Francesco Pittari e Marcello Nardis. Autorevole poi il mandarino di Gianluca Breda.
Come detto prima ottima la compagine orchestrale, coro (diretto da Vito Lombardi) e ballo di Arena di Verona. Il coro di Voci bianche A.d’A.MUS. era diretto da Marco Tonini.
Alla fine il pubblico ha acclamato e festeggiato tutti gli artisti generosamente.