Stiffelio torna a Venezia

Un allestimento tetro e incombente per l'opera verdiana tra le cosiddette minori

[rating=2] L’interesse del Teatro La Fenice di Venezia per l’opus verdiano trova nuova linfa vitale nella proposta di Stiffelio, assente dalle scene lagunari da quasi trent’anni. Tra le cosiddette opere minori, questa ha da sempre attratto gli studiosi per la posizione storica all’interno del catalogo dell’autore italiano e per le tematiche trattate.

Composto esattamente prima di Rigoletto, Traviata e Trovatore, e dunque a un passo da quella decisiva svolta formale, Stiffelio, concepito per il Teatro Grande di Trieste nel 1850, focalizza la propria attenzione sulla travagliata vicenda umana di un ministro protestante, tradito dalla moglie alla quale propone il divorzio. Argomenti molto forti e dirompenti tanto da stuzzicare, in quel momento, un accesa risposta da parte della censura che costrinse Verdi e il librettista Piave a ritoccare alcuni versi, incriminati per il loro messaggio “amorale”. Così menomata l’opera andò in scena ottenendo un buon successo ma vedendo ridimensionata la portata innovativa.

Stiffelio © Michele Crosera

Oggi, senza i tagli sventurati, vi è la possibilità di stimare compiutamente il valore della partitura che si sviluppa tra qualche debolezza e svariate virtù. In questo senso il contributo del giovane concertatore Daniele Rustioni è assolutamente imprescindibile: fin dalla sinfonia il carattere impresso dal direttore rivela attenzione ai colori e all’accompagnamento vocale, il tutto sorretto da dinamiche e agogiche assolutamente in linea con la tensione crescente, stemperata dal perdono finale.

L’incedere della narrazione si sviluppa secondo un indirizzo ben definito, volto a sottolineare l’embrionale ricerca delle tensioni psicologiche nello sviluppo umano dei personaggi. L’unico ad afferrare queste intenzioni è Stefano Secco, Stiffelio. Nonostante l’incedere sbrigativo dell’opera, che Verdi volle condensata in meno di due ore di musica, al protagonista sono riservati alcuni interventi eclatanti che il tenore italiano coglie, specie per quanto attiene la prova scenica, non senza elementi personali capaci, almeno in buona parte, di lenire alcune difficoltà nell’ascesa all’acuto e nel canto, a tratti gutturale.

La parte di Lina è affidata alla generica Julianna Di Giacomo. Al soprano americano non mancano i mezzi ma l’efficacia del loro utilizzo. Alla superficialità del fraseggio si affiancano una disomogeneità che inficia la zona acuta, tesa da emissioni fibrose, e una prestazione attoriale piuttosto rigida. Il monolitico Dimitri Platanias è un padre/suocero che poco si cura delle sfumature vocali ponendo attenzione alla veemenza fonica, dimentica degli accenti verdiani e della definizione, pur abbozzata, dei risvolti caratteriali di Stankar. Nel breve ruolo dell’amante Raffaele il tenore Francesco Marsiglia gioca bene le proprie carte, riuscendo efficace. Meno attento Simon Lim nei panni di Jorg. Appena adeguati gli apporti di Cristiano Olivieri, Federico di Frengel, e di Sofia Koberidze, Dorotea.

Stiffelio © Michele Crosera

L’allestimento, tetro e incombente, utilizza tinte care al teatro nordeuropeo. Il tentativo di cogliere gli aspetti del dramma borghese naufraga in una vuota idea registica. Johannes Weigand abbandona l’azione al naturale svolgimento senza riuscire ad inserire qualche ingrediente personale, necessario a corroborare l’idea drammaturgica verdiana. Il flusso musicale accompagna l’esposizione che non trova effettivo riscontro nella scenografia di Guido Petzold: l’incombente torre centrale irradia luce divina in un contesto disumanizzato nel quale solamente alcuni colori filtrano attraverso una parete traforata, presente durante l’intero spettacolo. I costumi di Judith Fischer commentano, con coerenza, la messinscena. L’Orchestra, arricchita dalla presenza di corno inglese e organo, offre una prova eccellente al pari del Coro, preparato da Claudio Marino Moretti.

Caloroso successo di pubblico per un ritorno tanto atteso.

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