
[rating=3]È l’ultimo spettacolo della stagione, il coloratissimo e vivacissimo Elisir d’amore che si va a rappresentare qui al Petruzzelli di Bari, sperimentata messa in scena del 2009 per il Lirico di Cagliari: appuntamento che segna finalmente anche, potremmo dire, l’atteso e voluto approdo in patria, visto che la regia è di Michele Mirabella, pugliese doc, come ognuno sa. Dice, il professor Mirabella, che per comprender fino in fondo quest’opera a sfondo georgico, sia di necessità poterlo collocare temporalmente: negli anni trenta del secolo romantico, ci ricorda il regista, anche a causa dei moti risorgimentali, l’urbanizzazione sposterà verso le città grandi masse di contadini che abbandoneranno sempre più la campagna, vissuta d’allora in poi nel segno nostalgico, triste e gioioso al tempo stesso, di perduta innocenza e, insieme, delicato ricordo. Secondo questa visione, la soffusa tenerezza sorridente così caratteristica dell’Elisir d’amore, e che ne costituisce in qualche modo l’inequivocabile e indelebile impronta, deriverebbe da questo sentimento, insieme nostalgico e allegro, sorta d’italica e casereccia saudade, tanto da indurre il Mirabella al neologismo d’opera “malincomica” per designarla: ne deriva da ciò, inoltre, la rivendicazione d’allestimento strettamente filologico, nel pieno rispetto non solo della musica ma anche del libretto, com’è del resto in gran moda oggi, reazione esasperata (fors’anche un tantino esagerata) a quelle che a tanti sembran troppo forzate soluzioni di registi avventurosi che – è di molti opinione – arriverebbero perfino a stravolgere il significato stesso dell’opera. Abbiamo del resto tutti ancor nelle orecchie l’insulto gratuito e volgare del (metaforico) “schiaffo di Milano” che un illustre registra transalpino ha rivolto in fin di spettacolo nel maggior degli italici teatri ad altrettanto illustre direttore d’orchestra: tangibile segno di malcelata reciproca insofferenza che sempre più si fa evidente, scorrendo non più sotterranea tra professionisti, commentatori e appassionati d’opera.
Affermazioni, tutte queste, che ben ci guarderemo dal contestare, evidentemente; per dirla con Jago, “io non sono che un critico”: noto solo, dal modesto osservatorio della mia poltrona in platea, che l’assolato paese dalle spighe gialle e dal cielo azzurro, dalle belle case color pastello prive della facciata, sì da somigliare a ottocentesche case di bambola, quei mulini ad acqua, quell’osteria de La Pernice, tutta la scena, insomma, così ben disegnata dalle mani di Alida Cappellini e Giovanni Licheri, potrebbe esser per davvero l’improbabile e imprecisato paese dei baschi del libretto di Romani; ma, pure, come negare trattarsi invece, e con ogni verosimiglianza, del villaggio della bassa lumbarda così vicino al Donizetti tanto che alcuni avrebbero ravvisato perfino in certe cadenze del coro echi del locale vernacolo; oppure no, né dell’uno né dell’altro si tratta: come si fa a non veder riflessi in quel cielo e riverberati in quei campi e nei luminosi abiti contadini, vaghi ricordi della dolce e agreste Capitanata cara al regista, dal sol che ferve e bolle? Tutto questo per dire che, com’è giusto e ovvio, ciò che si mette in scena è sempre – e per fortuna – interpretazione e illustrazione, esegesi e commento: il capolavoro arriva a noi passando senza eccezione alcuna attraverso la sensibilità, la cultura, l’amore degli interpreti, e il nostro godimento di spettatori potrà esser tanto maggiore quanto più intensa sia la sensibilità, vasta la cultura, generoso l’amore di chi ce lo porge.
Così, non saprei dire più se quel paese e quei personaggi di cui ieri sera ho seguito le vicissitudini siano francesi, iberici o italiani, lombardi o pugliesi: so però per certo che non ha importanza alcuna, ciò che è essenziale è, invece, che quel loro muoversi e cantar sulla scena abbia potuto trasmettere, a me seduto in poltrona in una sera del duemilaquindici, quella particolare emozione che l’Autore sognava e sperava, cento e più anni fa, poter comunicare a tutti quelli che avessero un giorno assistito a quel che andava componendo: miracolo del teatro che sempre si rinnova. Da questo punto di vista, come non giudicare egregio il lavoro degli interpreti? Il messaggio è stato debitamente trasmesso e tradotto, la magia compiuta, l’incanto preservato e intatto: se Michele Mirabella ha ben fatto il suo lavoro di regista e scenografi e costumisti il loro, la direzione d’orchestra, affidata a Giuseppe La Malfa, è stata anch’essa brillante e spigliata, certo mettendo l’accento sull’aspetto colorito e smagliante della partitura, di sicuro il più appariscente, ma con la sapienza di cogliere l’attimo: ci sono tesori nemmeno troppo nascosti, nella scrittura di Donizetti, trasalimenti improvvisi, frasi dal sapor di tragedia, addirittura, che passano come nuvole di tempesta estiva, ma che lasciano il segno, e ti fanno pensare, poi, ad un universo di ben altro spessore al di sotto della patina dorata e sorridente, come cor che sta sotto a quest’umile vestito: ecco, godere appieno di questo capolavoro è avere l’esatta comprensione di tutti questi livelli del tessuto narrativo e soprattutto musicale.
Gli interpreti sono, naturalmente, importantissimi in questo lavoro di decodifica e di comprensione della mente e del cuore, a partire dal coro e dall’orchestra: in poche opere come in questa, l’orchestra canta una storia tutta sua, fatta di apparentemente bizzarre sottolineature, ombrosità improvvise, guizzi sereni: l’Orchestra del Petruzzelli ha saputo coglier tutti questi momenti con grande ironia e leggerezza; così anche il Coro – guidato da Franco Bastianini – che assurge a vero e proprio personaggio, che commenta, approva, dissente, mormora, esulta. Buona la prova di Domenico Colaianni: il suo Dulcamara reinventato in salsa tedesca e chioma bianca leonina alla Emmett Brown di Ritorno al futuro è quantomai convincente e si fa perdonare qualche gigioneria di troppo, sciaguratamente sempre più frequente nell’attuale concezione del personaggio; stesso discorso per l’aitante Belcore di Bruno Taddia: pur essendo forse il personaggio più stereotipo della compagnia, di diretta derivazione classica – il miles tronfio e borioso – è tuttavia quello che più dà modo al suo interprete di sperimentare quei repentini e bruschi cambi di marcia di cui dicevamo prima, e Taddia sa cogliere queste opportunità. Il tenore Aldo Caputo è un Nemorino dalla voce chiara e di buon volume: molto applaudita la sua Furtiva lacrima, pur con qualche incertezza; Maria Grazia Schiavo, dulcis in fundo, è Adina decisamente e irresistibilmente superba e rara: stupisce, della cantante napoletana, l’incredibile facilità dell’acuto e la mirabile naturalezza del fraseggio, in uno col timbro elegante e l’accorta sapienza scenica che in un cenno del capo o un gesto della mano sottintende un mondo: ottima attrice, dunque, e perfetta cantante – in assoluto una delle migliori Adina degli ultimi anni – ha saputo mettere a frutto la sua esperienza con la musica barocca; a noi piace ricordarla qualche anno fa giovanissima Gatta Cenerentola protagonista dell’opera del genio di Roberto De Simone: aspettiamo di rivederla in tanti ruoli del melodramma romantico.